Home Page di Graziano Scappatura
Loading

Da Leon a Santiago (Parte I)

giovedì 07 ottobre 2010

Cosa sia stato a indurmi a intraprendere la via di Santiago non lo so. So che e' affiorato in me qualcosa che subito e' diventato pressante e incessante. E presto mi ha fatto capire che quello che era un pensiero che prima o poi avrei dovuto materializzare nella mia vita, era giunto al punto di avere una connotazione fisica.

Mai niente mi era venuto piu' facile da pianificare, e mai tanto entusiasmo mi aveva catturato al pensiero di come sarebbero potuti essere i giorni di una lunga estate che normalmente dedico a rilassarmi, a rincontrare gente e intrecciare appaganti rapporti con nuove conoscenze. E che questa volta avevo, invece, deciso di trascorrere in un modo singolare, solcando la rotta che da secoli i pellegrini seguono per una causa o un obiettivo che mi toccava scoprire giorno dopo giorno sul sentiero tra Leon e Santiago de Compostela ('Santiago di Campostella').

Gia', il mio spirito non mi aveva mai dato spiegazione del perche' andare in pellegrinaggio a Santiago. Forse per seguire una moda o forse affinche' un desiderio che qualcosa che portavo nel cuore si realizzasse. Forse per il gusto di affrontare una sfida. Forse rappresentava la conquista di un trofeo da esporre a braccia levate al cielo, ogni qual volta ci fosse modo di parlarne. O, piu' semplicemente, la voglia di sacrificio e di riflessione che aprissero nuove porte mai oltrepassate nella mia interiorita' e che mi facessero trovare piu' preparato alle digressioni della quotidianita'.

E' questo che io intendo 'essere pellegrino'. E fa parte della natura umana sentire la necessita' di pellegrinare. Assecondare questo desiderio recondito e' poi solo una questione di casualita' di eventi che ci si trova a vivere. La via del pellegrinaggio e' un aspetto secondario, che non riveste importanza in quello che si sente di intraprendere. Santiago e' solo un compromesso. Una via di mezzo che ti permette di faticare e di avere una appagamento garantito.

Il pellegrino errante - che e' l'accezione piu' inerente al termine 'pellegrino' usato correntemente - rimane ancora, quindi, un pensiero segregato dentro me che continuera' ad affascinarmi e regalarmi desiderio di fuga, e che forse mai si realizzera'.

Leon
Siamo arrivati a Leon con un treno proveniente da Valladolid. Un pomeriggio di caldo estenuante. Prima meta il Monastero delle Benedettine per apporre sulla mia Charta Peregrini ('Credenziale del Pellegrino') il timbro della partenza del mio Camino.

La Credenziale del Pellegrino l'ho richiesta prima di partire sul sito della Confraternita di San Jacopo di Campostella, facendo riferimento al priore (nel mio caso si trattava di una dolcissima consorella) piu' vicino al luogo in cui vivo.

Il caldo, il pomeriggio inoltrato e il fascino di Leon ci hanno spinti a rinviare la partenza all'indomani. Intanto, abbiamo dedicato le poche ore del tardo pomeriggio a visitare la citta', ma solo dopo qualche agognata cana.

Il simbolo della citta' e' la Cattedrale di Santa Maria la Regla, l'opera gotica piu' rilevante nella storia della Spagna, che non ci siamo potuti perdere. Il nostro giro per la citta' e' poi continuato fino alla Basilica di San Isidoro, altro monumento religioso di rilievo di Leon.

Data la stanchezza della lunga e calda giornata, e un po' anche per entrare nella dimensione di pellegrini, gia' nel tardo pomeriggio ci siamo appropinquati ad un ristorante per consumare il nostro primo menu del pellegrino. E' frequente trovare locali lungo il Camino che propongono un tale menu. Si tratta di un pasto che consiste di un primo e un secondo piatto, e di un dolce (ciascuno a scelta tra quattro o cinque possibilita'), piu' la bevanda. Il tutto per cifre variabili che si aggirano attorno ai 10 euro.

Erano le venti quando mi sono appena messo dentro il mio sacco-lenzuolo, che sono crollato letteralmente dal sonno, perdendomi cosi' la celebrazione eucaristica vespertina dedicata ai pellegrini che caratterizza questo monastero. I miei compagni di viaggio me l'hanno descritta come un evento pregno di significato in sintonia con quello che si prospettava essere il Camino.

Leon - Hospital de Orbigo (37 chilometri)

Dopo una notte abbastastanza movimentata, tra i rumori piu' variegati che si possono udire in uno stanzone con sessanta persone che dormono tutte insieme, e quelli piu' inaspettati (come la sveglia di un cellulare scattata alle quattro per sbaglio), ci alziamo alle cinque, e c'e' gia' un brusio costante di pellegrini che si mobilita per prepararsi ad una nuova giornata di duro e sacrificante cammino.

Poco dopo, giusto il tempo di bere un caffe' in fretta, presso il distributore automatico presente nel chiostro del monastero, ci troviamo a seguire gli altri pellegrini in direzione di Santiago, senza peraltro sapere quale era la meta che avremmo dovuto raggiungere in giornata. Abbiamo cosi' iniziato a distinguere le fatidiche frecce gialle che indicano la 'giusta direzione' da seguire.

Non siamo nemmeno usciti da Leon, che siamo passati davanti all'ultimo dei tre posti che meritano veramente di essere visitati in questa bellissima citta', ovvero il Monastero di San Marcos. Si tratta di una posada, ovvero una di quelle costruzioni storiche convertite in lussuosi hostal gestiti da privati. Questa politica e' adottata dagli Spagnoli per consentire di conservare il vasto patrimonio culturale che risulta altrimenti poco gestibile dalle istituzioni.

Era ancora buio, ma il personale dell'hostal mi ha fatto entrare nella hall molto gentilmente. Anzi mi ha pure invitato a visitare il chiostro. Ho potuto notare, nonostante il buio, che questa scelta di amministrare i beni culturali si e' rivelata vincente, visto che i monumenti sono aperti al pubblico e allo stesso tempo, sebbene adibiti ad alloggi, preservano comunque bene i tratti artistici e storici che li contraddistinguono.

Il Monastero di San Marcos e' una delle piu' grandi opere del Rinascimento spagnolo.

Riprendo il cammino solitario, seguendo e precedendo di tanto in tanto una cospicua comunita' di pellegrini. E qui che comincano le prime riflessioni. Inizia ad affiorare l'ansia. Quasi come un senso di colpa, la necessita' di accellerare per finire era diventata qualcosa di soffocante e insopportabile. Forse era solo il malessere della vita di tutti i giorni che ancora naturalmente mi portavo dietro.

A Virgen del Camino mi ricongiungo con i miei due compagni, e questo mi ha aiutato a soffocare la mia ansia. Scambiare due chiacchiere anche con i pellegrini che si affiancano temporaneamente mi ha fatto bene a cominciare a capire la causa delle mie fibrillazioni.

Dopo la ragazza belga, mi capita di stare a fianco all'uomo svizzero. E la conversazione naturale con queste persone mi estranea dai miei pensieri e mi fa prendere coscienza di come siamo vincolati nella nostra quotidianita', e di quanta liberta' ti da' un giusto cammino.

Dopo Virgen del Camino, ci sono due possibilita'. O seguire il percorso che costeggia la strada N120 oppure seguire un sentiero che imbocca un percorso che passa per Villar de Mazarife. Il libro Guida al Cammino di Santiago de Compostela (di Alfonso Curatolo e Miriam Giovanzana, editore Terre di Mezzo) suggerisce di seguire il secondo percorso se si preferisce attraversare un paesaggio piu' autentico quale quello del Paramo leonense.

Noi abbiamo seguito il percorso che costeggia la N120, se non altro perche' siamo stati tratti in inganno dalle scarse indicazioni verso il percorso alternativo. Difatti, lungo questa via non c'e' nulla di piacevole, primo fra tutti il continuo rombo dei motori delle macchine che si spostano lungo la carrettera.

Abbiamo sostato per mangiare un panino e un frutto a Villadangos del Paramo e poi abbiamo continuato attraversando San Martin del Camino, un piccolo paese dove c'era una festa e un gruppo folkloristico del posto si stava esibendo ballando al suono delle nacchere e di musiche tipiche.

L'ultimo tratto del cammino, prima di arrivare a Puente y Hospital de Orbigo lascia la carrettera e si immerge nelle campagne per un breve tratto. Poi si entra nel paese. Attendo i miei amici prima del famoso Puente de Orbigo. Si tratta di un ponte, fatto in pietra, a 19 arcate che attraversa il rio Orbigo e che risale all'epoca romana. Al ponte e' legata una leggenda, per cui gli si attribuisce anche il nome di Paso Honroso ('Passaggio d'Onore').

L'amore non corrisposto di una bella dama, spinse un tale cavaliere Don Suero de Quinones - al fine di mostrare alla sua amata quanto egli fosse forte e coraggioso - a lanciare una sfida in cui si proponeva di impedire per un mese intero a chiunque di attraversare il ponte sull'Orbigo. Nessuno riusci' ad attraversare il ponte. Il cavaliere si reco' a Santiago in segno di gratitudine e fece dono di un collare d'oro che ancora oggi adorna il busto della statua di San Giacomo.

Ci dirigiamo cosi' verso l'albergue parrocchiale gestito da una confraternita tedesca, dove non ci sono problemi di posti e veniamo accettati. L'albergue presenta una corticella per accogliere i pellegrini. Ci viene servita subito dell'acqua per ristorarci. Un gesto che ci ha rincuorato tanto. Poi passiamo alla corte attigua. Piu' grande, su cui si affacciano le stanze dove pernottano i pellegrini.

Prima di tutto, una lunga e salutare doccia. Poi il bucato. Quindi un po' di riposo, una sigaretta nel soleggiato cortile su cui si affacciano i dormitori oppure un po' di public relation attorno al tavolo della hall. O magari qualche minuto dedicato alle letture delle guide per contemplare sui posti che sono stati attraversati durante la tappa appena portata a termine, o sui posti e sulla meta della tappa che aspetta all'indomani.

E' pomeriggio inoltrato. Veniamo invitati a seguire la Santa Messa in italiano in una chiesetta la' vicino. L'emozione forte della mia 'impresa' appena compiuta, mi ha guidato nel luogo religioso quasi come un esigenza inconscia di attribuire un senso a quello che stavo attraversando. E realmente qui ho cominciato a capire che la mia scelta - di percorrere il Cammino - non era stata banale, perche' era dettata dalla voglia di seguire una direzione precisa nella mia vita. E allo stesso tempo di lasciare una traccia che le persone a me vicine, potessero seguire.

Giunge cosi' il momento piu' rilassante della giornata. L'ora della cena del pellegrino, un momento che e', oltre che piacere per lo stomaco, anche di gran relax e socializzazione con gli altri pellegrini. Si ha tempo per raccontarsi le proprie esperienze e le proprie sensazioni. Ma anche semplicemente di conoscersi.

Hospital de Orbigo - Rabanal del Camino (38 chilometri)

Nemmeno una macchinetta del caffe' nell'albergue. Ne' tantomeno avevo comprato un po' di colazione in qualche bodega il giorno prima. Allora solo tanta acqua fresca e sono partito per una nuova tappa. Anche questa senza una meta precisa. Un po' perche' ancora non avevamo calibrato bene le nostre capacita'. Ma anche, per quello che riguardava me, per via dei dolori sotto la pianta del piede sinistro che cominciavano ad acutizzarsi.

I tanti chilometri del giorno prima, peraltro ad un passo relativamente sostenuto e usando i sandali che dovevano essere usati per i tragitti agevoli, stavano per dare i loro segni di vendetta. Ma anche questo fa parte dell'esperienza che si deve fare lungo il Camino. Come nella vita. Trovare il giusto passo e imparare a dosare le energie per i momenti che servono.

Era ancora buio e dopo poche centinaia di metri ci troviamo davanti ad un bivio dove sostava un gruppo di pellegrini spagnoli in attesa di qualcuno che decidesse anche per loro. Il percorso a sinistra seguiva la carrettera, quello di destra si buttava su un sentiero buio di campagna.

Memori dell'esperienza del giorno prima, abbiamo scelto quest'ultimo, incuranti di cosa ci poteva attendere. Nessun segnale per centinaia di metri. Nessuna abitazione. Nessuna persona. Solo campi a destra e a sinistra. E anche la minaccia della pioggia.

Arriviamo, dopo un'oretta di cammino, a Villares de Orbigo. Ricominciamo a vedere le frecce gialle e ci sentiamo piu' tranquilli.

Al prossimo villaggio ci fermiamo per la colazione, in un baretto d'altri tempi, con un barista d'altri tempi. Forse perdiamo troppo tempo, o meglio, perdiamo il ritmo. Quello che serve per non perdere di vista l'obiettivo.

Riprendiamo il nostro cammino. Scaliamo la collina, mentre l'alba prende piede. Lungo la via, ci soffermiamo ad osservare le stalle e i recinti con animali. A coccolare splendidi cani di ragguardevoli dimensioni che girano per la campagna e che chiedono l'attenzione dei passanti. Poi i paesaggi stupendi, resi tali ancor di piu' dai colori rosei di un nuovo giorno che stava per nascere.

Ad attendere i pellegrini, lungo la via, anche un curioso oriundo che poltriva su un vecchio divano dentro una stalla diroccata. Fuori dalla stalla, un carretto con delle bevande e della frutta raccolta la' intorno. Una cassetta per le offerte, un diario dove lasciare un pensiero e un simpatico timbro a forma di cuore rosso con una curiosa scritta 'La Casa de los Dioses', che non abbiamo potuto fare a meno di apporre sulla nostra Credenziale.

Arriviamo cosi' sulla cima della collina, il Crucerio de Santo Toribio, luogo in cui il vescovo Toribio si inginocchio' per un ultimo saluto ad Astorga. Ci fermiamo ancora per fare pipi' dietro un cespuglio e cambiare calzini e scarpe. Ritorno cosi' ai miei sandali. Ma penso di aver fatto uno sbaglio clamoroso.

Attraversato San Justo de la Vega, arriviamo dopo qualche chilometro ad Astorga. Entriamo nella cittadina e notiamo subito i segni dell'importanza che ricopri' questo centro nei tempi passati. Dopo aver attraversato la piazza dove si trova l'ayuntamiento ('municipio'), arriviamo in Plaza de Eduardo de Castro, famosa perche' su di essa si affaccia il Palacio Episcopal, che ospita il Museo de los caminos ('Museo dei Cammini') ma ancor di piu' per essere un'opera di Antoni Gaudi'.

Sulla piazza attigua, invece, si affaccia un altro monumento importante per Astorga ovvero la Cattedrale di Santa Maria, bellissimo esempio di architettura gotica e barocca, che purtroppo non abbiamo potuto visitare, perche' chiusa al pubblico all'ora in cui ci siamo trovati a passarvi davanti.

Ci fermiamo cosi' ancora qualche piazza piu' in la'. Per consumare il nostro solito pranzo e riprenderci un po' dalla stanchezza e dal gran caldo. Rimetto le scarpe da escursione, con la suola piu' grossa. E questo e' un segno della sofferenza che cresce. Un bel po' di pellegrini ci passano davanti. Anche le conoscenze coreane del giorno prima. E sembrano pure abbastanza fresche di forze.

Sotto i raggi del sole perpendicolari al suolo, ci incamminiamo lungo la carrettera, ancora senza sapere la nostra destinazione precisa. Mi fermo al prossimo paese, Murias de Rechivaldo. Cerco un posto dove bere qualcosa di dolce, che mi dia energia. Mi cambio ancora una volta i calzini, per paura delle ampollas ('vesciche').

Proseguo per il prossimo paese, Santa Catalina de Somoza. Attendo gli altri. C'e' da prendere una decisione importante. Fermarsi o proseguire fino a Rabanal del Camino. In mezzo ci sono solo centri semiabbandonati e senza alcuna possibilita' di trovare un posto per dormire. Ma a me il posto dove ci troviamo non piace proprio. Eppure non ho tanta forza per andare avanti. Quindi insisto per proseguire.

Mi fermo ancora a El Ganso per l'ennesimo cambio di calzini. Dopo ci sarebbe solo da tirar dritti fino alla meta. Senza piu' fermarsi, ed evitare cosi' il rischio di non ripartire. La tensione e l'ansia riaffiorano. E' pomeriggio inoltrato e noi ancora abbiamo della strada da fare.

Lungo il sentiero in lieve salita, si comincia a notare il cambio di vegetazione che, sebbene non molto rigoglioso, tende a diventare una radura tipica di montagna. Boschi di abeti e felci. E poi un vento costante, forte e contrario. Che solleva la polvere argillosa seccata dai raggi del sole, e ce la sbatte in faccia.

Giungiamo all'ultimo tratto. Un percorso molto aspro e in pendenza nel sottobosco. Quindi arriviamo a Rabanal del Camino, quando sono quasi le sei del pomeriggio. Ma c'e' ancora da fare la lunga e ripida salita sulla strada in pietra che attraversa il paese e ci porta al Refugio Gaucelmo, gestito da una confraternita britannica (The Confraternity of Saint James).

Sono sfinito. Perdo di vista i miei due compagni e rimango a recuperare fiato davanti alla chiesetta. Poi qualcuno esce sulla strada e mi fa segno di entrare. Nonostante siano le sei circa, troviamo posto nell'albergue. In realta', un posto ce lo recuperano le simpaticissime consorelle, facendomi dormire su un materasso a terra, in una stanza che normalmente e' adibita a biblioteca.

Ma io sono contento. La mia stanza e' singola (per l'unica volta in tutto il Camino) ed e' inoltre un passaggio obbligato per la consorella della stanza a fianco.. E poi, c'e' lo stereo con dell'ottima musica. Da Morrissey a Simon & Garfunkel. Riesco cosi' a pensare meno ai dolori di chilometri e chilometri che abbiamo macinato e che sono stati resi molto pesanti dalle numerose soste e dal gran caldo.

In serata, i nostri amici italiani (con cui abbiamo socializzato e proseguito insieme fino alla fine) hanno preparato un pentolone di pasta per una ventina di persone. Abbiamo cenato nel gazebo nel giardino dell'albergue. In un clima di spensieratezza ed autenticita' che d'ora in poi avrebbe caratterizzato le nostre serate fino a Santiago.

A lavare la montagna di piatti mi sono offerto io, come gesto di solidarieta' verso il sesso femminile. Io ho insaponato e la simpaticissima suora bresciana, che faceva capo ad un gruppo di ragazzi italiani, ha sciacquato le stoviglie. Le battute e il buonumore ci hanno sopraffatti. E questa si e' rivelata una buona medicina contro tutti i malesseri fin la' accumulati.

Rabanal del Camino - Molinaseca (26 chilometri)

Un risveglio meno frenetico del solito. Finalmente ho potuto accendere la luce e prepararmi con relativa serenita' ad un nuovo giorno di sacrificio. Una buona e abbondante colazione (caffe' americano e due 'tostadas' con 'mantequilla' e marmellata) consumata attorno al tavolo della cucina dell'albergue, in compagnia degli altri pellegrini, sono una buona carica per ripartire.

In realta' mi ero illuso che, arrivato ai 1150 metri di altitudine, di piu' non si sarebbe potuto salire. E invece mi sbagliavo. Ci toccava durante quella tappa raggiungere il punto piu' alto del Camino. Avremmo superato Foncebadon e raggiunto la Cruz de Hierro ('Croce di Ferro'). Fino superare i 1500 metri. Mai pensando che il peggio sarebbe stato scendere giu' fino a soli 600 metri, in pochi chilometri in linea d'aria.

I primi chilometri - quelli che ci hanno portati alla Cruz de Hierro - sono stati abbastanza tranquilli. Forse sono riuscito a cogliere anche la bellezza di quei posti. Il fascino della desolazione e dell'abbandono di Foncebadon. La vista molto profonda che da lassu' ho potuto ammirare. La mancanza di orizzonti nella perdizione dello sguardo dei miei occhi. Illuminati tra l'altro dai riflessi di un'alba di colori e di freschezza che pian piano si consumava.

E poi l'emozione dell'arrivo alla Cruz de Hierro. La montagnola di sassi che sorreggono un palo di legno alla cui sommita' prevale una croce di ferro, trasmette tanto. Forse non ci si sa spiegare perche', e pochi se lo chiedono. Ma la sua vista suscita molte emozioni. Gli uomini che hanno lasciato un sasso hanno una storia personale, una speranza, un motivo o, semplicemente, si conformano ad un'usanza. Magari vogliono dare solo un segno di liberarsi di un peso che grava sulla propria vita o affidare un ricordo alla montagna e alla sua capacita' di renderlo eterno.

Io avevo una missione. Trovare le scarpine del nipotino di un mio amico che l'anno prima le aveva legate alla croce. Anche non sapendo nulla sul significato di quel gesto, ero contento di averne trovato un paio. Le ho fotografate. Gli ho mandato un sms. Pensavo che ritrovarle la' e dare questa notizia avrebbe dato un forte messaggio di speranza e di fede, e allora mi sono sentito bene pure io. E il messaggio e' giunto anche a me.

Dopo una lunga sosta, ripartire non e' stato semplice. Un po' di saliscendi e mi sono ritrovato in sentieri duri e scoscesi. E anche ripidi. Non sapere come affrontare la discesa rendeva tutto piu' complicato. Lasciarsi andare alla velocita' portava via tanto fiato, faceva sudare tanto e il pericolo vesciche era dietro l'angolo. Frenare il proprio moto significava sollecitare molto gli arti inferiori e anche questo era un pericolo grosso per il prosieguo del viaggio.

Forse e' stata la frenesia di finire prima possibile quel percorso in discesa che mi ha giocato un brutto scherzo. Spingendomi ad abbandonare il mio corpo alla pendenza del terreno. Saltellando da un sasso all'altro e selezionando meticolosamente, seguendo una logica convulsiva, i punti meno scomodi dove poggiare i piedi.

Ma i saltelli, appesantiti dai piu' di dieci chili di zaino che portavo sulle spalle, erano pesanti e talvolta le caviglie sbattevano cosi' violentemente sul piano duro, da causare un riverbero che si propagava in alto verso tutto il resto del corpo e raggiungeva le sommita' celebrali, turbando la quiete e la serenita' che sono invece necessarie in quei momenti.

Mi sono fermato a cambarmi i calzini. Seduto ad un sasso, terrorizzato per le vesciche al punto che sul mio viso in parecchi hanno letto la sofferenza. In molti, anche, mi hanno chiesto come stavo. Ma sono ripartito. E quel 'come stai' mi rimbombava nella mente quasi a dirmi 'stai male' e a signicare di fermarmi e non proseguire piu'. Mugugnavo e chiedevo al cielo il perche' di ogni dolore acuto che mi consumava lentamente tutte le poche energie che oramai avevo.

Pensavo anche, tra me e me, che forse era il mio fisico che non era adatto al Camino. E cedevo sempre piu'. Ad El Acebo mi fermo di nuovo sul bordo di una fontana. Bevo e mi rimetto le scarpe. Do' un occhio alla guida. Perdo tempo per non ripartire. Ma poi parto controvoglia. Ancora concentrandomi sul dolore, quasi a volermi giustificare se casomai mi fossi fermato.

Con questa testa non sarei potuto andare tanto piu' lontano. Arrivo al prossimo paese, Riego de Ambros, molto sofferente. Vedo una chiesetta (Ermita de San Sebastian) e istintivamente mi trovo in ginocchio con la testa fra le mani a pregare la Vergine affinche' mi dia la serenita' per compiere questo viaggio. Non ho altre parole per descrivere questo momento.

Ma uscendo dall'eremo percepivo che avevo riacquisito un po' di convinzione. Per ripartire o fermarmi del tutto, o forse per una decisione intermedia. Chi lo sa.

Subito mi trovo di fronte una ragazza con cui ho iniziato a parlare dicendo egoisticamente che non ce la facevo piu' e che il dolore fisico era troppo forte, mostrando le mie caviglie che sembravano due cotechini pronti per essere lessati. Probabilmente - e serenamente, a quel punto - mi sarei fermato.

Ma lei si alza il pantalone e mi mostra le sue fasciature. E poi, in una lingua che non era la mia, mi dice che ogni pellegrino che incrocio, porta dentro una sofferenza fisica. Chi piu' e chi meno. Ma pochi la esternano, e nessuno dovrebbe. E' stato la' che la serenita' acquisita poco prima in chiesa, mi ha fatto pensare all'errore che stavo commettendo a pubblicizzare le mie sofferenze. E non importa se erano tutti pellegrini o semplicemente gente che probabilmente non avrei incontrato per tutto il resto della mia vita.

Poi aggiunse anche che non dovevo pensare al dolore. E invece io fino a quel momento non avevo fatto altro che focalizzarmi su di esso, probabilmente enfatizzandolo. La saluto e riparto.

Nessuna implorarazione al cielo. Mi ero ripromesso anche questo nell'ultimo tratto di questa tappa. Il sole picchiava forte, ma io scendevo adesso piu' rinfrancato.

Al termine del sentiero, sulla carrettera poco prima di entrare a Molinaseca, mi giro e ritrovo il mio 'angelo'. L'aspetto e proseguiamo insieme fino al paese.

Molinaseca sembrava proprio un paese in festa. Io mi sarei fermato li', come eravamo d'accordo con i miei amici. Petra (cosi' si chiama il mio 'angelo'), Svizzera di Zurigo, avrebbe proseguito fino a Ponferrada.

Alla vista del fiume (rio Meruelo) da sopra il caratteristico Puente de Peregrinos, non ho potuto fare a meno di invitarla a fermarsi e mettere i piedi in quella meravigliosa acqua fresca e trasparente, insieme a me.

Avrei proseguito, ma tra noi c'e' chi stava peggio. E ci siamo fermati.

Quella sera avrei gradito intensamente una cena del pellegrino. Ero affamato, visto che avevo saltato il pranzo. Sicuramente i dolori mi avevano fatto scordare di aver fame. Ma l'aver ritrovato me stesso, aveva comportato di ritrovare anche il mio appetito.

Per la compagnia, pero' siamo rimasti a mangiare all'albergue municipal, dove pernottavano i nostri amici, dormendo su dei letti a castello sistemati all'aria aperta. Dopo la cena, giu' di nuovo sul muretto che lambisce il rio per un altro 'impacco' di acqua fresca. Dall'altra parte c'era una comunita' di bambini e di giovani che alla sola vista si riflettevano in me, trasmettendomi la serenita' che sembrava mancarmi da una vita.

Mentre testardamente mi sono impuntato a non portare nulla dall'Italia perche' di nulla pensavo che avrei avuto bisogno, quella sera mi ero portato dietro mezza farmacia di Molinaseca. Antidolorifici, antinfiammatori, pomate e fasce elastiche. Ma in fin dei conti, anche se la mia testardaggine era stata balordamente sconfitta, ero contento di quello che mi era successo.

Molinaseca - Villafranca del Bierzo (36 chilometri)

Sara' l'aria piu' salubre che si respira negli albergue privati, ma quella mattina mi sono svegliato bene. Ho fatto un'ottima colazione (al solito caffe' americano e al pane tostato con burro e marmellata, ho aggiunto dei croissant e un bicchiere di succo d'arancia) e sono partito insieme ai compagni alla volta di Villafranca del Bierzo.

Giornata chiara e limpida, come si notava dal cielo stellato sopra noi, gia' dai primi chilometri di cammino. Da subito abbiamo trovato il passo giusto. Sostenuto ma non forzato. Con uno dei miei compagni di viaggio abbiamo anche trovato la parola giusta. E, come se il tempo non fosse mai passato, come se i dolori non fossero mai esistiti, ci siamo ritrovati a meta' della tappa.

Non erano ancora le otto quando siamo arrivati a Ponferrada. La temperatura era fresca (sui 15 gradi). Siamo passati davanti al Castello dei Templari. E la' ci siamo fermati un po'. Per guardarlo da vicino. Farci qualche foto. Era forte anche la tentazione di entrarci. Ma a quell'ora il castello era chiuso.

Ponferrada, capoluogo della comarca di el Bierzo, ha una storia ricca alle spalle, e molte leggende sono legate a questa cittadina. Innanzitutto, l'Ordine dei Templari la scelse come loro sede per mettere in sicurezza i pellegrini lungo il Camino. Furono loro a costruire il ponte di granito rinforzato da barre di ferro, che permetteva di attraversare il rio Sil lungo la rotta del pellegrinaggio e che da' il nome a questo posto (ma di cui oggi non c'e' traccia).

Per quanto riguarda le leggende, si racconta che una statua della Vergine fu trovata da un Templare dentro una quercia che stava per essere abbattuta per recuperare del legno che serviva per la costruzione del castello. Sempre secondo la leggenda, la statua era stata nascosta secoli prima da San Genadio nella quercia per proteggerla dai musulmani.

La statua della Virgen de la Encina ('Vergine della Quercia') e' conservata nella Basilica de Encina e si fa riferimento ad essa con il nome la morenita in quanto e' considerata una delle madonne nere di Spagna.

Il viaggio continua in totale tranquillita'. E' una splendida giornata per me, e non sento di fermarmi. Dopo Culumbrianos procedo da solo. Attraverso colline ricoperte di vigneti, la cui vista regala un inaspettato stato di pace con il mio corpo e con la mia mente. Che persiste per chilometri e chilometri. Fin quando il sole si alza a picco.

Mi trovo sulle ultime colline - un po' piu' aspre - prima di entrare a Villafranca del Bierzo. Davanti a me oramai da un po' di tempo, una coppia di giovani australiani che spingono ciascuno un passeggino con un bebe' dentro. E' un'emozione che non posso trasmettere. E le domande dentro me si moltiplicano. E mai hanno una risposta. Ma solo ipotesi.

Solo quando mi avvicino alla giovane madre, in prossimita' di un'altra salita sul percorso sterrato, e mi offro per poter spingere un po' la carrozzina e farla cosi' riposare (ricevendo un cortese rifiuto), percepisco che il cammino di quella famiglia e' un dono d'amore della coppia verso i propri figli e, forse, un segno di gratitudine che lo si e' voluto manifestare nella maniera piu' profonda che una coppia possa condividere.

Mai ho raggiunto la mia meta cosi' in anticipo. Mai stando cosi' bene. Ma l'albergue municipal era pieno. Il prossimo albergue e' dall'altra parte della strada. A ridosso di una chiesa. Quella chiesa e' un altro simbolo del Camino.

Si tratta della Chiesa di Santiago. La peculiarita' di questa chiesa sta in uno dei suoi portali. In particolare, in quello settentrionale, Puerta del Perdon, il cui attraversamento rappresenta per i pellegrini che arrivano fin qua e non riescono piu' a proseguire, un gesto che consente loro di ottenere l'indulgenza pur non riuscendo a raggiungere la Cattedrale di Santiago e abbracciare la statua del Santo.

Mi addentro nel rifugio. Scappandomi naturalmente qualche parola in italiano, l'hospitalero spagnolo mi dice di chiedere informazioni al collega italiano, con cui ci saremmo capiti senz'altro meglio. Un giovane che mi ha ispirato subito familiarita'. E che l'accento inconfondibile lo ha ricondotto subito alle mie origini. E' inutile dire che mi ha dato tanta gioia e mi ha fatto sentire immediatamente in un ambiente familiare. Anche per via della grande persona che dopo si e' rivelato.

Ma ancora non avevo realizzato che c'era qualcosa di piu' misterioso che mi provocava quella strana sensazione. Mi trovavo all'Ave Fenix ('Araba Fenice'), il rifugio che ha segnato la rinascita (l'araba fenice e' l'uccello mitologico simbolo della rinascita) di Jesus Jato dopo che, essendo ritenuto uno stregone dalle persone del posto, gli fu bruciato il primo punto d'accoglienza che creo' per i pellegrini.

Jesus Jato e' un personaggio mistico che e' oramai un emblema del Camino. Ancora oggi guida questo locale con entusiasmo, supportato dai pellegrini che di tanto in tanto si concedono dei giorni di pausa da un Camino estenuante e decidono di fermarsi qua a dare il loro contributo. E' famoso anche per i sui metodi rituali con cui si propone di curare i malesseri dei pellegrini. Ma anche per la preparazione della queimada e per la celebrazione del rito celtico per allontanare lo spirito cattivo dalle persone, nel corso del quale questa bevanda e' ingerita. E, infine, per essere amico di Paulo Coelho, che lo cita nella sua pubblicazione Il Guerriero della Luce Online, nell'Edizione n°224.

Essendo arrivato in anticipo alla mia meta odierna, anche per aver saltato il pranzo, decido di andare a comprare qualcosa per pranzo e mangiarlo in riva al rio Burbia, alla Playa Fluvial. E magari, dopo, riposarmi e prendere un po' di sole. Per far diminuire il gonfiore delle mie caviglie, poi, sara' bene anche tenere i piedi 'a mollo', nell'acqua del rio, il piu' a lungo possibile.

Va tutto cosi'. Forse anche meglio, visto che il posto che trovo dove esaudire i miei desideri e' veramente bello. E nulla ha da invidiare a un bel lido di mare. La Playa Fluvial di Villafranca del Bierzo e' veramente un posto molto piacevole dove trascorrere ore di relax dopo diverse ore di cammino. Cosi' piacevole che, pur non avendo il costume, non ho saputo resistere alla tentazione di farmi un bel bagno in mutande.

Per la sera, decidiamo di rimanere tutti insieme a cenare all'Ave Fenix. Il mio corregionale Roberto, nonche' grande cuoco di Bratislava, imbandisce una mega-spaghettata per circa sessanta persone. Ma prima di cominciare a cenare, ci stringiamo tutti insieme, in una lunghissima catena umana chiusa da Jato, che si pronuncia in uno dei suoi riti ancestrali con cui benedice il nostro cammino.

La sera scorre in un'allegria e una spensieratezza che non pensavo potessero appartenere al Camino. Si canta, si scherza e si ride oltre al limite dell'orario che ci garantisce le ore necessarie di riposo in vista di una nuova giornata di sacrificio. Anche sconfinare fa parte del Camino.

Villafranca del Bierzo - O' Cebreiro (30 chilometri)

E' buio. Facciamo una ricca colazione. Salutiamo Jato e, a malincuore, lascio l'Ave Fenix. Inizia cosi' l'ultima tappa in Castilla. Percorriamo lunghi tratti sull'asfalto della carrettera. Ma oramai sapevo come affrontare le mie tappe. Passo costante, velocita' moderata e niente soste.

Proprio in virtu' di quanto appreso, mi sono ritrovato a percorrere gran parte della tappa da solo. Immerso nel silenzio rotto solo dal rombo del motore di qualche auto che sfrecciava al di la' dello spartitraffico, dal fruscio delle fronde degli alberi della fitta boscaglia che mi avvolgeva e dal gorgogliare delle acque del rio Burbia che scorreva a fianco a me.

Dopo lunghi chilometri, raggiungo la mia amica irlandese Mary e insieme portiamo avanti piacevolmente il nostro Camino. Lunghe ore di dialogo non sono state semplicemente una buona lezione di inglese. Anzi forse quest'aspetto e' stato quanto di piu' banale la nostra amicizia abbia maturato.

Nel lento discorrere dei piu' disparati argomenti, presto ci siamo trovati a lasciare l'asfalto per intraprendere la montagna e i suoi sentieri. Le ultime esperienze in montagna non mi hanno intimorito per nulla. Oramai ero sicuro di saper governare la mia ingenuita'.

A La Faba, mi fermo per aspettare i miei compagni di viaggio. Gia' intenzionato a non pernottare in questo posto per nessuna ragione al mondo. Troppa desolazione. E di solitudine basta quella dei lunghi tratti di ciascuna tappa, che si finisce per - o si vuole - percorrere da soli.

Nell'attesa approfitto per il solito bocadillo, l'aranciata amara e un buon frutto. Dopo vari battibecchi, partiamo alla volta di O' Cebreiro. Davanti a noi presto la pendenza della strada comincia ad aumentare, lasciando dietro alle nostre spalle delle viste di paesaggi di rara bellezza.

Ma fortunatamente i chilometri non sono poi tanti e in qualche ora ci troviamo sulla sommita' del monte, a O' Cebreiro. Sento la brezza che comincia a pungere. Il clima e' gia' cambiato. Ma anche la vegetazione. Davanti a noi il verde della Galizia e il dolce ondeggiare delle sue terre che si perde nell'orizzonte.

Ci incamminiamo nel villaggio che pullula di pellegrini, a piedi e in bicicletta. Qualcuno pure a cavallo. Era gia' chiaro che sarebbe stato difficile trovare posto in qualche albergue. Dopo le prime ricerche fallite, maturiamo la saggia idea di prendere un posto piu' accogliente per trascorrere la notte. Avrebbe giovato al nostro Camino.

Una confortevole stanza in un appartamento di un'anziana signora galiziana, distaccata e dall'aria molto 'affarista', e' stato il risultato della nostra ricerca.

Dopo una lunga doccia calda e aver indossato il vestiario piu' pesante che avevamo, usciamo a fare un giro per il villaggio insieme al nostro amico torinese, Federico. E' lui che ci guida per le vie di O' Cebreiro, portandoci a visitare le pallozas ovvero le caratteristiche costruzioni celtiche, con pianta tonda e tetto in paglia, dove alloggiavano i pastori del posto.

Abbiamo anche visitato la Iglesia di Santa Maria la Real. Un luogo topico, dove e' ambientato uno dei miracoli piu' suggestivi che il Camino abbia mai conosciuto. Nella chiesa e' conservato il Caliz del Milagro ('Calice del Contadino'), che mi ha subito fatto venire in mente la descrizione del miracolo che avevo letto nel libro Il Cammino di Santiago di Paulo Coelho.

Un contadino di un villaggio vicino, nonostante la neve che imperversava sul Cebreiro, volle a tutti i costi raggiungere la Iglesia di Santa Maria la Real per assistere alla celebrazione eucaristica. Ma arrivo' in ritardo. E di questo era molto dispiaciuto. Il prete che celebrava la messa (a manifestazione di minor fede) rise dentro se' del sincero dispiacere del contadino.

Il miracolo si compi' al momento della consacrazione dell'ostia, allorquando il Corpo di Cristo divenne carne tra le mani del parroco e il vino dentro il calice si traformo' in sangue. Il prete e il contadino sono stati fatti riposare in eterno in questa chiesa, l'uno in fianco all'altro.

L'atmosfera avvolgente e molto pregna che si respirava dentro la chiesetta romanica, ci ha spinto senza indugio ad apporre un timbro sulla nostra Credenziale. Idealmente, penso che quel timbro sia stato apposto anche dentro di me, perche' difficilmente dimentichero' questo posto.

E' sera, ma il sole ancora illumina la vetta del Cebreiro. Possiamo ancora stare all'aperto per farci una pinta prima di andare a cena. Salutiamo l'arrivo in Galizia rinunciando al menu del pellegrino per un'alternativa tipica di questa Xunta ('regione') ovvero il Pulpo a la Galega ('Polipo alla Galiziana'). E' una serata ancora una volta di piacevoli compagnie, nel pieno spirito di un sano Camino. Mentre fuori le nebbie calano.

Da Leon a Santiago (Parte II)

giovedì 07 ottobre 2010

O' Cebreiro - Samos (28 chilometri)

Dopo la colazione nel bar di fronte al nostro alloggio, di buon mattino ci inoltriamo nel buio e nella nebbia, tra i sentieri che scendono giu' dal Cebreiro. E' un'atmosfera surreale. Con le nostre torce andiamo avanti senza esitazione. E lungo la via incontriamo pellegrini solitari incerti della rotta che stanno seguendo. Addirittura troviamo anche gente che ha dimenticato qualcosa in albergue e torna indietro a recuperare gli oggetti dimenticati. Anche questo fa parte del Camino. Forse e' un indice di uno zaino troppo pieno. Oppure semplicemente che ancora non si e' trovato il giusto passo. In ogni caso, pensavo a quanto disastroso poteva essere se fosse successo a me. E mi dispiacevo.

Dopo qualche chilometro di discesa, riprende una lieve salita che ci porta ai quasi 1300 metri dell'Alto do San Roque. Qui e' d'obbligo la foto con il mio santo. Poi giu' lungo sentieri per nulla difficili e con un panorama che si apre sempre di piu' man mano che le nebbie di diradano e il sole viene su da dietro la montagna.

Ancora un lungo tratto insieme alla signora irlandese. E' piacevole parlare con lei. Sento che lo stesso piacere lo prova lei con me. E mi domando come e' possibile. O il mio inglese non fa proprio cosi' schifo o c'e' un segreto nel comunicare che va oltre la capacita' espressiva del linguaggio.

Dopo una piacevole sosta ad un grazioso baretto lungo il sentiero, per un caffe' e un pezzo di torta di Santiago, arriviamo a Triacastela. Un borgo abbastanza anonimo, che lascia una duplice scelta per la prosecuzione del Camino. O seguire il Camino classico, che passa per San Xil. Oppure seguire il Cammino alternativo, un po' piu' lungo, che passa per Samos.

Noi optiamo per quest'ultima, perche' Samos e' la destinazione del giorno. Sebbene questa rotta sia la 'rotta alternativa', Samos e' legato da secoli al Camino per via della presenza del Monasterio de los Benedectinos, risalente al VI secolo e punto di riferimento per molti pellegrini. Ed e' proprio nell'albergue del monastero che abbiamo come obiettivo di trascorrere la notte.

Da Triacastella a Samos si attraversano, tramite sentieri agevoli e ben tenuti, solo boschi solcati dal rio Ouribio. Lievi saliscendi e una natura rigogliosa che lascia parecchi momenti per la mia contemplazione.

L'arrivo a Samos e' anticipato da una bellissima vista sul paese e, in particolare, sul monastero che domina il panorama.

Quando giungo davanti al monastero, l'albergue e' ancora chiuso. Assisto cosi' ad una scena che mi era stata descritta come usuale di questa esperienza. In pratica, metto il mio zaino a terra in coda agli altri dei pellegrini giunti a destinazione prima di me. Tale ordine determina l'ordine di ingresso nell'albergue, fino all'esaurimento dei posti letto. E vado a mangiare.

E' una giornata fresca. Anzi comincio ad avvertire un po' di freddo. Oltretutto, visto che il giorno prima avevamo usato tutto il vestiario per ripararci del freddo del Cebreiro, ero sprovvisto di indumenti per coprirmi. Non solo, il centro d'accoglienza del monastero e' una delusione totale. Strutture fatiscienti. Poca acqua e fredda. Lavatoi nei lavabi usati per l'igiene personale. Letti vecchi e persino non c'era posto per stendere i panni bagnati.

Ma dopo diversi giorni di Camino i pellegrini sono oramai preparati e non si abbattono cosi' facilmente. E, un po' complice la previdenza di qualche pellegrino che ha portato con se' del filo per stendere i panni, un po' per la mia spregiudicatezza nel tendere fili attaccati nei posti piu' impensabili, che siamo riusciti a trovare ampi spazi per appendere la biancheria.

Restava per me il problema di coprirmi. Ricordero' la mia permanenza a Samos principalmente per questo. Al punto che non sono riuscito nemmeno a trovare la forza di andare a visitare la chiesa del monastero. Gli amici mi hanno detto che invece ne valeva proprio la pena.

Samos - Portomarin (28 chilometri)

Ho imparato che il mattino ti dice parecchio su come sara' la tua tappa. La partenza da Samos mi aveva rivelato tanto e solo con il senno di poi ho capito che i segnali non dovevano lasciare dubbi a quanto dura sarebbe stata la tappa.

Ci avviciniamo a Sarria. Una tappa cruciale del Camino. Nello spirito piu' tradizionale del Camino, per ricevere la Compostela ovvero l'attestazione ufficiale di Pellegrino, bisogna percorrere cento chilometri del Camino a piedi o duecento in bici o a cavallo. Il tutto naturalmente documentato attraverso i timbri sulla Credenziale.

Ecco che Sarria, che dista poco piu' di cento chilometri da Santiago, diventa l'ultimo paese valido come partenza del Camino per i pellegrini 'a piedi' che vogliono conseguire la Compostela.

E questo fatto viene subito all'occhio. Il traffico dei pellegrini sui sentieri era cresciuto in modo spropositato. Anche la varieta' di pellegrini era mutata. Molti piu' giovani e molti piu' anziani, naturalmente. E la presenza di questo gran numero di persone non poteva lasciare indifferenti. Forse e' subentrata una certa delusione di quello che il Camino era fin qui apparso.

I lunghi tratti in solitudine. Le grandi difficolta'. Il profondo senso di solidarieta' tra i pellegrini. Il rispetto della gente dei posti attraversati verso i pellegrini. Tutto cio' e altro ancora, a partire da Sarria cominciavano a perdersi velocemente. E proporzionalmente aumentava la tensione e diminuiva la serenita'. Erano rare le volte in cui incrociavi un pellegrino e pronunciavi il fatidico 'Buen Camino!', quando fino allora era un augurio che sgorgava da dentro il cuore ogni volta che te ne trovavi uno in fianco.

L'ansia diventava spesso nervosismo. Incapacita' di sopportare che il tuo sacrificio poteva non essere riconosciuto a fine giornata, perche' centinaia di 'domingueros' avrebbero gia' occupato gran parte dei posti dove alloggiare, mentre tu avresti dovuto ancora girare e trovare un posto per dormire.

Ma sicuramente c'era dell'altro. Un partenza mattutina con temperature eccessivamente fresche, una colazione consumata al volo e senza un caldo caffe', un malessere intestinale. Le molteplici soste e lo stress di dover ripartire e recuperare il terreno perduto.

Per fortuna riusciamo a raccogliere anche qualche soddisfazione in questa tappa. Per esempio, l'aver raggiunto il cippo che indica che mancano cento chilometri per Santiago. Da quel punto in poi ogni chilometro in meno sara' segnalato da un cippo in pietra recante il simbolo del Camino ovvero la concha ('conchiglia') gialla su sfondo blu e il numero di chilometri che mancano per arrivare alle reliquie di San Giacomo.

Dopo la foto di rito, io e il mio compagno di viaggio ripartiamo. Ma subito dopo decidiamo di fare l'ultima pausa per mangiare qualcosa prima di lanciarci verso l'obiettivo di questa giornata. La sosta ci pesera' parecchio. Difficile ripartire, complice anche il caldo di meta' giornata. E poi le chiamate degli altri amici che ci incitano a fare in fretta perche' gli ostelli si stavano pian piano riempendo. La variazione del passo e' quasi fatale.

Quando Portomarin era la' sullo sfondo e tutto sembrava fatto, mi accorgo che c'e' un lungo tratto di ripidi saliscendi, tutti da percorrere su un asfalto rovente. Per la prima volta ho cominciato a sentire le vesciche sotto i piedi. Ma non pensavo che fosse il caso di fermarmi a cambiare i calzini. Ne' di fermarmi per prendere un po' di fiato.

L'ultima discesa e' durissima. I dolori irrompono e non riesco a non pensarli. Arrivo comunque sul lungo ponte che passa sul bacino artificiale del rio Mino su cui un tempo sorgeva Portomarin, e porta sulla sponda su cui, poco piu' su, sorge il nuovo centro della citta', spostato per intero dall'argine del fiume.

La vista aperta mi da un po' di respiro. Ma e' li' che arriva un flusso di pellegrini in bicicletta che occupera' i posti per dormire che dovrebbero per giusto essere assegnati a noi pellegrini a piedi. Ripiombo nello sconforto. Passo lento e arrivo su in paese con la sensazione, poi confermata, che gli albergue dove i nostri amici avevano preso posto, erano esauriti.

Mi fermo. Non ho fiato. Non ho forza. E' stata un'altra di quelle tappe che difficilmente dimentichero'. Sono i miei colleghi a trovare un posto dove pernottare. Mortificato per la mia apatia e ansioso di trovare un posto dove buttare il mio zaino e cominciare a ritrovare me stesso, sembra passare un'eternita' prima di essere accompagnato presso l'albergue dove passeremo la notte. Ma alla fine riconosco che si tratta di un bel posto che tanto ha contribuito per ritrovare il conforto perso durante una giornata no.

Qui capisco quanto viaggiare insieme a una buona compagnia puo' essere un vantaggio indiscutibile.

La sera usciamo. Entriamo nella chiesa-fortezza di San Nicolas che spicca in questo paesino. Cerchiamo un timbro, ma e' tardi. Il vespro era terminato da un pezzo e la folla intorno a noi era solo la gente del paese, e i pellegrini di passaggio, che si aggiravano per la piazza perche', tutto sommato, Portomarin e' un paese accogliente.

La serata in compagnia per una tanto desiderata cena al riparo dal venticello pungente che spira fuori mi ha ristorato alla grande. In albergue ho tutto il tempo e la serenita' per prepararmi nel migliore dei modi per una nuova tappa che ci avvicinera' ulteriormente a Santiago.

Portomarin - Palais de Rey (24 chilometri)

Partiamo di buon mattino. Al solito, luci rigorosamente spente. E vengo svegliato dal brusio dell'andirivieni di pellegrini che gironzolano tra gli stanzoni e i bagni per prepararsi a ripartire.

Colazione veloce e povera. Ma c'e' tutta la convinzione che bisogna avviarsi con la giusta andatura e non fermarsi. E' stato scongiurato il pericolo molto probabile fino alla sera prima, che uno dei miei compagni non ripartisse. Tra le varie ipotesi c'era quella di seguirci in autobus. Oppure di affidare lo zaino ad una di quelle ditte che fanno il servizio di trasporto bagagli.

Ma alla fine abbiamo lasciato tutti l'albergue, imboccando il sentiero segnato dalle frecce gialle. Chiaramente, il nostro amico e' rimasto parecchio indietro. Ma non e' questo il problema grosso. L'importante e' riuscire a spostarsi con il giusto passo. La velocita' e' un problema relativo.

Si, non posso certo dire che la velocita' non possa essere talvolta un fattore cruciale in queste ultime tappe. Pero' mi sento tranquillamente di consigliare di far tappe piu' brevi, con partenze piu' anticipate, che non fare delle corse inutili che deterioranno solo il fisico e la mente.

Infatti, cosi' abbiamo fatto per questa tappa. Arrivando a Palais de Rey, prima di entrare nel centro abitato, ci accorgiamo che ci sono due belle strutture per accogliere i pellegrini. D'altronde, sebbene era appena mezzogiorno, avevamo percorso piu' di venti chilometri. Melide, poi, era parecchio distante. Considerando anche che a Melide confluisce un altra rotta molto trafficata di questi tempi (ndr: il Camino del Nord) e che la tarda ora in cui saremmo arrivati non ci assicurava affatto di riuscire a trovare agevolmente un posto dove pernottare, decidiamo di fermarci qui.

In realta', non c'e' stato alcun problema per trovare il posto. Ma il netto ritardo del nostro compagno ci ha fatti stare un po' in ansia.

Dopo le solite attivita' di routine per un pellegrino, un sano riposino - visto che c'era il tempo per farselo - ci sta tutto. Poi giu', all'aperto a ricercare un posto al sole dove usufruire di un piacevole calore e scambiare un po' di chiacchiere con gli altri pellegrini. Esperienze, senzazioni, aspettative. Ed e' tutto molto coinvolgente, anche perche' ben si possono dosare leggerezza e argomentazioni interessanti, seppure davanti a te si trovano persone con altre culture e altre lingue.

E' tardo pomeriggio. Scendiamo nel centro del paese per andare ad assistere al vespro. In lingua spagnola, ma va bene lo stesso. La destinazione finale e' ormai vicina. E ognuno di noi vuole ringraziare il Signore per averci protetto nel nostro Camino. Non solo. Ma anche per quello che pian piano, nella serenita' sempre piu' grande che stiamo acquisendo, ci rendiamo conto che stiamo vivendo.

In paese incontriamo anche due amici che accettano di cenare con noi. Miguel e Anna sono due ragazzi (spagnolo lui e francese lei) che si sono incontrati ad Astorga e da li' hanno deciso di proseguire insieme. Ancora faccio fatica a capire come facevano a superare la loro difficolta' di comunicare. Lui non parlava francese, lei non parlava spagnolo. Entrambi parlavano poco e male l'inglese. Ma, dopotutto, camminavano insieme. In fin dei conti, dopo che tutti insieme abbiamo passato una bella serata, pur non parlando noi ne' francese e ne' spagnolo, e anche poco e male l'inglese, mi e' venuto piu' facile darmi una risposta.

Palais de Rey - Arzua (30 chilometri)

In attesa che gli altri fossero pronti, ho trovato utile fare un po' di massaggi e un po' di riscaldamento per i miei muscoli, giusto davanti all'ingresso dell'albergue. E mi chiedevo cosa mai ci facesse una telecamera a quell'ora del mattino. Pensavo che magari qualcuno voleva portarsi un ricordo del Camino che gli facesse rivivere qualunque momento della sua parentesi da pellegrino, anche quella del risveglio e delle partenze al buio.

Camminando insieme e discutendo, invece, viene fuori che in realta' quella telecamera era di operatori della RAI, e che questi stavano realizzando un reportage sul Cammino di Santiago.

E' ancora buio quando ci stiamo addentrando in un bosco. Dai cespugli appare ancora la telecamera. E poi ancora piu' avanti, a Leboreiro, quando la luce del sole comincia a prendere il sopravvento, i nostri amici della televisione italiana sono ancora la', con il loro 'arnese da lavoro' puntato verso il Puente de Magdalena sul rio Seco.

Questa volta ci facciamo avanti a chiedere informazioni. E' un servizio per la trasmissione Uno Mattina e verra' mandato in onda entro due o tre settimane. Lasciamo i nostri indirizzi per essere contattati quando il video andra' in onda e chiediamo una ripresa. Quando a meta' del ponte il cameramen ci manda un segnale noi ci giriamo e salutiamo con il pollice alto. Ognuno di noi pensa che sara' un bellissimo ricordo del Camino. Chissa' se faremo parte di questo servizio televisivo.. (:-?)

Arriviamo a Melide. Un paesotto che a me non ha trasmesso niente. Sapevo che e' il paese dove e' piu' popolare il Pulpo a la Galega, ma ne sarei accorto anche senza saperlo. Erano appena le nove e mezza, e gia' i ristoratori ci richiamavano dentro i loro locali a mangiare questa prelibata pietanza.

Poi lunghi chilometri in un caratteristico paesaggio galiziano. Boschi, prati e ponticelli per attraversare ruscelli. A volte affascinato, ma a tratti anche stanco di un paesaggio che oramai si ripeteva da giorni. Forse il clima piu' mite pero' mi ha fatto sopportare meglio questi attimi di voglia di cambiamento.

L'ultimo tratto e' sull'asfalto, gia' da un po' prima dell'entrata ad Arzua. Penso che questo paese si sviluppi lungo una strada principale. Infatti, abbiamo fatto lunghi chilometri camminando sulla strada statale che arriva alla piazzetta principale del paese. Da li', poco distante, c'e l'albergue municipal. Era da poco passato mezzogiorno. Ma ancora una volta abbiamo fallito. L'albergue era pieno. Decidiamo di metterci alla ricerca di un posto per pernottare e, per aumentare la probabilita' di trovarlo, ci dividiamo. Ognuno va per una via diversa a cercare un alloggio.

Io mi fermo desolato e mi tolgo scarpe e calzini. Poi raggiungo gli altri che gia' stavano trattando per essere accompagnati da qualche parte dove poter trascorre la notte. Si trattava di un locale a pian terreno, adibito a rifugio. Che aveva tutta l'aria di aver avuto un trascorso da autorimessa. Ma va bene. E' pur sempre uno dei posti piu' confortevoli dove abbiamo dormito, se si esclude la musica che nei dintorni impazzava. E ha continuato a farlo fino alla tarda ora della mattina successiva.

Era il giorno di San Roque. Festa del paese. Oltretutto era un giorno di festa anche perche' la festa dell'Asuncion de la Virgen ('Assunzione della Vergine') era caduta la domenica. E in Spagna se un giorno festivo cade di domenica allora il giorno successivo e' ancora un giorno festivo.

Un giro per il paese in serata. Facciamo spesa per la colazione dell'indomani, e cominciamo a trovare un bel numero di pellegrini che lungo questo percorso abbiamo conosciuto. Si respira gioia. Anche a cena siamo in tanti. Ma in parte ci eravamo gia' organizzati. Avevamo due compleanni da festeggiare e, perche' no, anche un onomastico.

Arzua - Monte do Gozo (32 chilometri)

Dopo la tarda ora della sera precedente, il risveglio del mattino non e' stato affatto semplice. Ma ci incamminiamo forti dell'idea del traguardo che oramai e' ad un passo.

Un po' il buio, un po' la foschia e un po' perche' ci siamo abbandonati forse un tantino troppo appresso ad un gruppo di spagnoli sprovveduti, ci siamo trovati a seguire un sentiero ai cui bordi c'erano si' i cippi, ma i chilometri che riportavano aumentavano man mano che andavamo avanti, piuttosto che diminuire.

Al cospetto della loro indecisione, abbiamo subito invertito la rotta per ritornare sul giusto percorso. E' stato un po' frustrante. E sicuramente non di buon auspicio per il resto della giornata. Pero' c'era ottimismo, anche se misto a un po' di delusione. Piu' ci avvicinavamo alla meta, piu' sentivamo che il senso del Camino stava venendo meno. E a far perderne il senso e' la sempre piu' cospicua folla di pellegrini che incontravamo.

Questa tappa e' stata una passeggiata blanda. A riprova di cio', c'e' il fatto che mai c'eravamo trovati tutti insieme per un cosi' lungo tratto. E' capitato anche di fare lunghe chiacchierate. Ma l'entusiasmo non decollava.

In fretta e' passata la mattinata e ci siamo trovati a scalare la prima delle colline al di la' del quale si trova Santiago. Proprio sulla prima di queste c'e' un tabellone e una statua che indica che siamo a Santiago. Ma realmente mancano diciotto lunghi chilometri.

Era nostro obiettivo farceli tutti. Intanto ognuno, quasi per dovere di dare un senso a questo pellegrinaggio, comincia la sua marcia solitaria.

Io, desidero che questo momento sia il momento di fare delle conclusioni. Ma anche il momento di pensare ognuna delle persone a me care. Quelle in vita e quelle che mi guardano da lassu'. A pensare ciascuna persona che mi sono portata nello zaino, perche' non ha avuto la fortuna di avvicinarsi e capire che staccarsi dall'abitudine di trascorrere una vacanza banale, e mettersi in cammino, puo' lasciare un marchio di qualita' nella propria personalita'.

Alla fine la mia deduzione e' stata che non era il momento di trarre conclusioni. Ma era solo il caso di ricercare nella propria memoria quelle situazioni che piu' mi sono rimaste impresse e ad esse attribuire un significato. Quello che il Camino lascia alla fine e' questo. E non e' nemmeno giusto sforzarsi di individuare delle situazioni. E' il tempo che le fara' riaffiorare. E ciascuna di queste situazioni riaffiorira' con un significato profondo dentro di me.

Mi sento piu' tranquillo e penso che alleggerire la mia mente e' tutto cio' che il Camino mi chiede in queste ultime fasi. E comincio a sfogliare il mio 'facebook', a donare un mio pensiero a ciascuna delle persone che non mi sono state indifferenti. E' stato bello trovare questo momento ma sarebbe ancora piu' bello capire questa mia necessita'. Forse io non sono altro che la risultante di ciascuno di loro. E in questo senso voleva essere un 'grazie a tutti'. O forse e' solo un desiderio di rafforzare la mia sincerita' e la mia trasparenza perche' in esse vedo le qualita' che preservano l'essere umano al di la' di ogni confine fisico.

Mi commuoveva il pensiero che da li' a breve sarei arrivato sulla tomba di San Giacomo Apostolo. E lo ero ancora di piu' pensando che ci sarei giunto sofferente se non altro per il gran caldo che faceva. Ma ancora c'era una collina. E poi un'altra. E un'altra ancora.

Ero sfinito. Mi fermo ad un chiosco in un centro abitato. Poi mi guardo intorno. Una grande statua dedicata a Giovanni Paolo II si ergeva sulla sommita' della collina e piu' giu' delle strutture che si estendevano su un'ampia superficie, che non riuscivo a realizzare cosa fossero.

Mi trovavo a Monte do Gozo. E mancavano solo cinque chilometri alla cattedrale. Avevo fame e ho mangiato. Mi sono tolto le scarpe. Erano chiare manifestazioni che non volevo ripartire. Incontriamo altri amici che ci dicono che si sarebbero fermati a pernottare in quella struttura che altro non era che il 'megarifugio' che era stato costruito per la visita del papa. Troppi elementi che ci hanno convinto che partire all'indomani di buon mattino e arrivare entro un'oretta e mezza a Santiago, era sicuramente la scelta piu' saggia.

Dopo esserci sistemati nella nostra camera e trascorso un pomeriggio in relax, nel tardo pomeriggio facciamo un giretto piu' in la' nel paesino, a brindare con della buona birra insieme ad altri pellegrini. Intanto, arrivano altri amici che, chissa', se la sono presa con piu' comodo o forse hanno accusato la stanchezza delle centinaia di chilometri percorse.

Per la sera, imbandiamo la 'tavola' su un prato. Siamo in tanti. Chi cucina, chi fa la spesa, chi apparecchia, chi fa le foto, chi chiacchiera, chi schernisce qualche malcapitato. Ma e' veramente un'atmosfera unica. Ognuno si sente di aver oramai compiuto l'impresa e dentro anche una piccola opera di bene per l'umanita'. Ma lascia trapelare solo la leggerezza che solo la soddisfazione interiore riesce a far trasmettere.

C'e' ancora tempo per riunirci nel bar centrale della struttura. Matteo, il nostro amico bergamasco, in preda ancora all'euforia di un compleanno oramai trascorso, paga Chivas Regal per tutti. In qualche modo riusciamo a trovare le nostre stanze per farci qualche ora di sonno.

Monte do Gozo - Santiago de Compostela (5 chilometri)

Nonostante manchino solo cinque chilometri al traguardo, partiamo di buon'ora. C'e' da fare la fila per ritirare la meritata attestazione di Pellegrino. In breve arriviamo sulla carrettera. Da qui si nota che Santiago e' un centro di grandezza rispettabile. Il traffico comincia a pullulare gia' dalle prime ore del mattino.

La vista del cartellone che indica l'inizio del centro abitato ci attrae da subito e ognuno si fionda per farsi immortalare in una foto vicino a quell'insegna. Poi ancora a camminare lungo i marciapiedi che portano nel cuore della citta'.

Non sento quell'emozione che in molti momenti avrei pensato di provare quando percorrevo le prime tappe del mio Camino. E forse e' questo il senso della frase che spesso mi e' capitato di leggere sui muri 'Non e' importante la meta, ma il cammino', e che avevo gia' letto nel libro di Coelho.

Attraverso la porta di accesso alla citta' vecchia ('Puerta do Camino') insieme a Bruno, pellegrino di Tradate giunto alla meta il giorno prima e che ho incontrato inaspettatamente poco prima all'uscita di un bar, passiamo davanti alla cattedrale. Un banale segno della croce mentre continuiamo i nostri discorsi. E ci uniamo agli altri che sono gia' in fila davanti all'Oficina del Peregrino.

Qui scoppiano abbracci ed esclamazioni di felicita'. Poi foto e la ricerca intorno a me di persone con cui ho condiviso gioie e dolori da vicino. Quindi realizzo che e' il caso di mettere lo zaino a terra, in coda agli altri che attendevano gia' l'apertura dell'Oficina del Peregrino per ritirare la Compostela.

Finalmente, comincio a sentirmi piu' leggero e non solo per essermi tolto lo zaino da sopra le spalle. Ma perche' comincio a comprendere che un cammino della mia vita e' terminato. Sicuramente il cammino che ha delineato ulteriormente il mio modo di vedere il mio futuro. Come una serie di cammini. Ognuno duro e pieno di insidie, molte delle quali imprevedibili. Ma con una consapevolezza acquisita che ciascuno prepara ad affrontare il nuovo cammino con uno spirito diverso e pronto ad accettare di vivere ogni momento di esso. Perche' cio' rende consapevoli che le scelte che si faranno sono quelle che daranno un diverso sapore alla propria vita.

Un sapore che si avra' tempo di gustare alla fine di ogni cammino. E proprio quello che stavo facendo. Seduto su uno scalino assaporavo pacatamente la mia serenita', comunicando il mio stato di piacere alle persone a me piu' care. Avendo ben chiaro in mente che ci sarebbero stati nuovi e piu' impegnativi cammini da percorrere. Come ci saranno nuovi momenti per provare soddisfazione piena per i percorsi compiuti.

Ritirata la pergamena e lasciati nella corticella interna i bastoni che ci hanno sorretto nei nostri tragitti, ci spostiamo sulla praza Obradorio su cui si erge la stupenda facciata principale della cattedrale. Dominata da due sontuose torri. Quella di sinistra, Torre de la Carraca, e quella di destra, Torre de las Campanas. In mezzo alle due torri si eleva il Retablo de Piedra.

Una fila umana impressionante di devoti attende sotto una pioggia leggera, che da' alla piazza un aspetto piu' malinconico e al contempo la carica di fascino, per entrare ad abbracciare la statua del Santo e a scendere nella cripta per omaggiarne le spoglie. E' questo un rito che compiono i pellegrini di fede religiosa. Ma io non ho consapevolmente fatto. Come pure non ho ricevuto il Sacramento della Riconciliazione. Forse cosi' vanificando i sacrifici fatti per ottenere l'indulgenza che spetta a tutti i pellegrini, che addirittura quest'anno, Anno Jacobeo, sarebbe valsa come Indulgenza Plenaria ovvero purificazione completa di tutti i peccati. Forse pero' tutto vale anche senza i riti a contorno a cui mi sono colpevolmente sottratto. Sicuramente il senso di colpa che mi pervade dopo questa disobbedienza pero' mi fa' sentire ancora un tantino in debito con il Cielo e cio' mi motivera' ancor di piu' a scoprire ancora nuovi aspetti della mia interiorita'.

Attraverso il Portico da Gloria. Gia' era tutto pieno in ogni ordine di posto e, quindi, sebbene era la nostra celebrazione e sebbene stavamo arrivando da un viaggio di centinaia di chilometri, siamo rimasti ancora in piedi a seguire la Messa del Pellegrino. Un'atmosfera ricca di emozione che e' cominciata con la proclamazione dei Pellegrini da parte del Vescovo. Poi la celebrazione e' diventata molto piu' intensa. Al punto che, durante l'omelia, sebbene veniva pronunciata in spagnolo, sono riuscito a captare una frase quasi come se venisse detta nella mia lingua. Il Vescovo ci ha posto la domanda che noi ci saremmo dovuto a quel punto chiedere (e magari qualcuno si era gia' posto) ovvero del perche' ci trovavamo in quel posto a seguire la Santa Messa.

Forse non me lo ero mai chiesto fino a quel momento. Forse si, ma non mi sono mai soffermato a darmi una risposta esaudiente. E sono rimasto quasi folgorato quando il Vescovo ha detto che si trattava di una Chiamata Vocazionale. Difatti, ho sempre pensato a quanto strano fosse stato tutto cio' che mi era successo da quella mattina di luglio che mi svegliai con un'idea fissa in testa di immettermi sulla via di Santiago. E forse il concetto di Chiamata Vocazionale riassume sinteticamente cio' che non so' spiegare altrimenti.

L'unico rammarico (anche se tutte le emozioni provate non me lo hanno fatto realmente sentire) e' stato che il Botafumeiro (ovvero l'incensiere caratteristico delle celebrazioni importanti della Santa Messa nella Cattedrale di Santiago, che viene fatto oscillare spettacolarmente nel senso della navata centrale fino a raggiungere l'altezza di oltre dieci metri da terra) era in manutenzione quella mattina. Per cui non abbiamo potuto assistere a questo rituale.

Usciti fuori per la porta che si affaccia su Praza da Immaculada nell'ora di punta Santiago e' un continuo pullulare di gente, al punto che si fa difficolta' a muoversi per le vie. Aspettiamo un po' a salutarci con altri visi conosciuti che abbiamo incontrato in cammino e con cui magari non abbiamo avuto modo di scambiare una parola. Ma oggi e' un giorno di festa ed e' quasi un'esigenza quella di circondarsi di persone, specie di quelle con cui puoi maggiormente condividere le sensazioni che si stanno provando.

E' festa appunto. Un pranzo in compagnia e' un'altra occasione di condivisione che nessuno vuol lasciarsi scappare. Poi un po' la stanchezza e un po' pure la stanza confortevole che avevamo preso per passarci la notte, ci ha spinti a rientrare per una pennichella meritatissima, dopo una bella doccia calda e rilassante che non ricordavo cosi' da O' Cebreiro.

Pomeriggio inoltrato. Domani si rientra. Un'oretta dedicata ai souvenir. Tra un'entrata e un'uscita dai negozi di ricordini, preso esclusivamente dal desiderio di comprare qualcosa alle piccole persone a me care, che in futuro possa dare spunto per una riflessione sull'esistenza di questo posto e magari a scoprirlo dal vero, sento chiamarmi alle spalle da una voce con un accento decisamente straniero. Poi un abbraccio alle mie spalle.

Ero felicissimo di aver incontrato inaspettatamente Mary. Solo qualche minuto per salutarci. Ma in quei pochi minuti solo parole che mi hanno lasciato veramente tanto compiacimento per come una persona abbia potuto vedermi. Fortunatamente, anch'io sono riuscito a rompere la campana di egocentrismo che talvolta mi racchiude e sono cosi' riuscito ad esternare i miei apprezzamenti per la bella persona che ho avuto la fortuna di incontrare. C'era sincerita'. Penso che continuero' a inseguirla e ricercarla negli altri.

Riprendo la mia corsa, forse piu' carico che mai. Sono in ritardo con gli altri per un nuovo momento di condivisione culinaria e non solo. Federico ha gia' pensato dove portarci per il nostro ultimo Pulpo a la Galega di questa avventura. Dentro me penso se ci ritornero' sui passi del Camino, ma ho paura di deteriorare cio' che ho gia' vissuto. Al punto che facilmente mi convinco che non capitera'. O forse sono solo stanco di pensarci.

Weekend in Andalusia

mercoledì 01 settembre 2010

Il fascino che questa terra mi solleva probabilmente ha origine nella lettura del libro di Paulo Coelho, L'alchimista. L'essere una terra di confine tra continenti e la ricca storia che si porta alle spalle, ne hanno fatto per me un desiderio che prima o poi avrebbe dovuto realizzarsi.

Forse ancora per molti aspetti e' rimasto incompiuto. Ma il lungo weekend che ho trascorso a Siviglia e nei paraggi, e' stato molto intenso e rimarra' annoverato tra le esperienze di viaggio piu' belle che ho vissuto.

Dall'aereo si notava sorprendentemente il grigiore cupo delle nubi basse che attanagliavano Siviglia nelle prime ore di un mattino - per noi - inoltrato di fine luglio. Ma per Siviglia erano ancora le prime luci dell'alba.

L'aria calda e il progressivo dissolversi della foschia, ci ha ridato quello che ci aspettavamo da Siviglia. Luce e colori vivi e nitidi.

Giusto il tempo di giungere in tram in Plaza Nueva e ci sediamo per un meritato caffe' sui tavolini di un bar del centro. Ma lo stomaco reclamava di piu', visto le gia' diverse ore che eravamo in piedi. Nulla di meglio di un bocadillo con jamon serrano.

Dopo aver raggiunto l'appartamento centrale di amici che ci hanno ospitato, e mollato las mochilas, ci dirigiamo subito verso Plaza Virgen de los Reyes, su cui si affaccia la maestosa Cattedrale di Santa Maria da cui si erge l'imponente torre (Giralda).

Chiaramente non abbiamo resistito alla tentazione di salire subito sulla Giralda e di visitare uno dei monumenti religiosi piu' grandi al mondo.

In origine, all'epoca in cui la penisola iberica era dominata dagli Almohadi, laddove oggi e' locata la cattedrale, era stata costruita una moschea. La Giralda altro non era che la torre annessa al luogo di culto almohade. Adiacente alla moschea si estendeva il Patio de los Naranjos.

A seguito della Reconquista, si volle dare un segnale forte della cristianita' e nel XV secolo la moschea fu abbattuta per erigere la cattedrale. Il progetto, in stile gotico, fu realizzato quasi totalmente in 75 anni. E, del vecchio monumento moresco, e' stato conservato solo la Giralda e il Patio de los Naranjos. Tutto il complesso riporta, quindi, tra gli altri, oltre lo stile gotico predominante, segni dell'epoca almohade, dello stile mudejar e interventi in stile neoclassico che risalgono a tempi piu' recenti.

Il progetto della Giralda, elaborato da Ahmed Ben Baso, si rifa' chiaramente a quello della Koutubia di Marrakech. E' stato particolare salire sul minareto in quanto non vi e' presenza di scale, ma solo di rampe, visto che un tempo i muezzin, incaricati di chiamare a preghiera i fedeli, usavano salire sulla torre anche a cavallo.

Dall'alto una vista spettacolare di Siviglia, sotto le numerose campane che ci sovrastavano imponenti. In cima al minareto, invece, si erge il Girardillo, un monumento dorato che segna la direzione del vento. A questa statua metallica sono legate numerose leggende per lo piu' inerenti al meteo. Una copia del Girardillo puo' essere comunque ammirata nel cortiletto interno della cattedrale che si affaccia su Plaza del Triunfo.

Ritornando giu' dalla torre, ci si ritrova di nuovo all'interno della cattedrale. Immensa. Abbiamo fatto fatica a trovare il giusto modo di fare un giro completo. Ma immediatamente abbiamo potuto scorgere sulla sinistra la Capilla Real ('Cappella Reale') al centro del cui altare si trova la statua in legno di Santa Maria de los Reyes. Tale statua era appartenuta a Ferdinando III il Santo, il cui corpo giace a piedi della statua. Ai lati della Vergine invece si trovano le tombe di Alfonso X e della madre.

La posizione in cui si trova la Capilla Real e' l'estremo opposto alla porta principale della cattedrale, la Portada de la Asuncion ('Porta dell'Assunzione'). In mezzo, lungo la navata centrale c'e' invece l'altra cappella importante, la Capilla Mayor ('Cappella Maggiore') in cui si trova un imponente altare di cui fanno parte un elevato numero di sculture.

Su una delle navate laterali si nota anche il mausoleo con le spoglie di Cristoforo Colombo. Si tratta di quattro araldi che portano a spalla la tomba del grande navigatore, ciascuno rappresentante i quattro regni cristiani che all'epoca contava la corona spagnola (Castiglia, Leon, Aragona e Navarra).

Uscendo dalla cattedrale ci siamo ritrovati nel Patio de los Naranjos, che e' il chiostro della cattedrale caratterizzato dalla presenza di aranci.

Il biglietto di ingresso per la cattedrale prevedeva anche la visita della vicina chiesa di San Salvador, che si affaccia sull'omonima piazza. La' abbiamo potuto ammirare il favoloso altare maggiore che descrive la Trasfigurazione di Gesu', e un altrettanto bell'affresco nell'altare di Santa Justa y Santa Rufina, patrone della citta'.

Prima di proseguire il nostro tour, avendo adocchiato un localino molto carino con molta gente intorno, che proponeva le famose tapas, ci siamo fermati per mangiare qualcosina e farsi qualche caña, ovvero l'equivalente italiano di una bionda piccola alla spina (con la differenza che a Siviglia, in centro, costa solo 1 euro!).

Seguendo le strette vie del centro, ci siamo ritrovati su Avenida de la Constitucion e da li' abbiamo proseguito verso il fiume che attraversa la citta', il Guadalquivir. Una passeggiata 'defaticante' prima di rientrare a casa. Lungo la sponda del Guadalquivir abbiamo potuto ammirare, oltre la bellissima visuale, anche la Torre del Oro e, piu' avanti, sempre proseguendo sulla sponda di sinistra del fiume, il Teatro de la Maestranza, meglio noto come Plaza de Toros, che e' la piu' grande arena della Spagna.

La sera e' stata particolarmente piacevole, avendo potuto appurare la vita condotta da un cospicuo numero di ragazzi che hanno deciso di fare un'esperienza di vita e di lavoro all'estero, trasferendosi in Spagna. Un grande momento di condivisione che ci ha dato anche graditi approfondimenti sulla vita che si conduce a Siviglia.

All'indomani, sveglia di buon'ora: prevista una giornata al mare in compagnia. Direzione Cadiz ('Cadice'). Sfortunatamente non abbiamo fatto bene i conti con i tempi necessari per raggiungere la playa. Infatti, era il sabato dell'ultimo fine settimana di luglio. Una giornata di grande esodo, come si puo' facilmente immaginare. Oltretutto, non abbiamo considerato che il ritardo poteva aggravarsi, dovendo aspettare due amici colombiani, con il loro proverbiali 'tempi latini'.

In tarda mattinata, comunque, abbiamo finalmente raggiunto la spiaggia di Cyclana, sull'Oceano Atlantico. Bella e non molto affollata.

Abbiamo cosi' trascorso una bella giornata di bagni e sole intervallata, di tanto in tanto, da una sosta all'attiguo chiringuito, visto il gran caldo.

Per la sera, ci e' stato regalato un altro bel giro sempre sulla costa atlantica. In effetti, ci siamo fermati a Cadiz dove abbiamo potuto ammirarne la modernita' e il fascino del centro storico arabeggiante, a ridosso del mare. A coronamento della piacevole giornata non poteva mancare una bella scorpacciata di pesce.

Domenica pigra a Siviglia. Con tranquillita' siamo usciti di casa per fare un giro per le strade del centro. Spoglie all'inverosimile ancora quando era quasi mezzogiorno. A quell'ora iniziavamo la nostra colazione ai tavolini di uno dei rari bar aperti del centro, e qualche turista cominciava a farsi avanti. Solo turisti pero', e qualche busker.

Uno di questi ci ha colpito tanto con le sue intonazioni e la sua musica gitana, che non abbiamo avuto esitazioni a lasciare la meritata offerta. Ogni tanto irrompeva con delle canzoni emozionanti la calma di un mattino andaluso, rimarcato da una una costante melodia flamenca di sottofondo che da dentro il locale si levava.

Caldo e stanchezza della giornata trascorsa in spiaggia, ci hanno spinto a saltare il tour a Cordoba. Poi, avevamo ancora tanto da vedere in citta'. Siamo cosi' usciti per raggiungere Plaza de Espana ('Piazza di Spagna').

Plaza de Espana si sviluppa dentro un semicerchio, lungo la cui porzione perimetrale si leva il Palacio Espanol ('Palazzo Spagnolo'). Il complesso e' stato costruito in occasione dell'Esposizione Universale del 1929.

La piazza e' solcata da un canale attraversato da ponticelli ed e' decorata lungo il perimetro circolare, da 58 panchine che rappresentano ciascuna una diversa provincia spagnola. Ogni panchina e' decorata con tipici azulejo che danno un'idea geografica 'enfatizzata' di una particolare provincia.

Usciti dalla piazza ci addentriamo nel verde rigoglioso del Parque de Maria Luisa ('Giardini di Maria Luisa'). Laghetti e fontane immersi tra cedri, platani, aranci e magnolie. Alla fine dei giardini, ci siamo trovati nella Plaza de America, anch'essa facente parte del progetto delle opere realizzate in occasione dell'Esposizione Universale del 1929.

In un contesto molto equilibrato tra vegetazione e decorazioni architettoniche varie, ci siamo ritrovati di fronte il Museo Arqueologico Provincial ('Museo Archeologico Provinciale') e alle nostre spalle il Pavillon Mudejar ('Padiglione Mudejar').

La nostra passeggiata si e' conclusa attraversando Calle San Fernando, su cui si affaccia la Reale Fabrica de Tabacos ('Fabbrica di Tabacchi'), famosa per essere stato il posto dove sono state ambientate le scene della celebre opera lirica Carmen di Georges Bizet.

Per l'ultima sera andalusa ci e' stato riservato qualcosa di veramente speciale. Siamo stati accompagnati in un locale, La Carboneria, veramente particolare, dove assistere ed emozionarsi per la veracita' del contesto e degli spettacoli di musica flamenca a cui si puo' assistere.

Appena entrati, il locale non era ancora pieno, ma l'aria era gia' pesante per l'umidita' causata dal gran caldo e dalla copertura veramente rudimentale. Ma poi ci siamo accorti di quello che stavamo per vivere e ci siamo abbandonati felicemente a sudare senza piu' pensarci. Nessun condizionatore, ma solo ventilatori che a poco servivano se non a creare un'atmosfera ancora piu' particolare.

Un bancone diritto, a cui ci siamo recati subito per prendere qualcosa da bere, si scorge sulla sinistra subito dopo essere entrati. Mentre, nell'ampia sala sono disposti ordinatamente dei tavoli come spesso si incontrano sotto i padiglioni delle sagre dei posti nostri, e delle panche per sedersi.

In fondo alla sala c'e' un piccolo palchetto dove, da li' a breve sarebbero saliti su i tre artisti gitani. Il chitarrista e il cantante, che indossava un tipico stivaletto basso da flamenco, erano gia' pronti. Nel camerino, invece, la ballerina-cantante era intenta a prepararsi.

Si respirava eccitazione tra il pubblico, molto variegato, che si e' trasformata in grande attenzione e approvazione al protrarsi dello spettacolo. Impressionanti ritmi scanditi con il solo battito delle mani e dei tacchi delle calzature degli artisti. Passione pura trasmessa dalle voci melodiche dei cantanti e dalle danze tese della ballerina. Un vero piacere esserci stati e un ulteriore apprezzamento della cultura di questa regione.

Ero gia' soddisfatto del weekend appena trascorso, ma c'era ancora qualche ora a mia disposizione prima di ripartire per l'Italia. Giusto il tempo di andare a visitare l'altra delle principali attrazioni di Siviglia, i Reales Alcazares ('Palazzi Reali') - uno dei migliori esempi di stile mudejar mai riconosciuto, che si affacciano su Plaza del Triunfo, dalla parte opposta alla cattedrale.

Entrando dalla Puerta del Leon ('Porta del Leone', cosidetta per gli azulejo affissi sopra la porta, che raffigurano un leone) si arriva, passando per il Patio del Yeso ('Cortile del Gesso'), nel Patio del Leon ('Cortile del Leone'). Tre archi separano quest'ultimo dal Patio de la Monteria ('Cortile della Caccia'). Cosi' chiamato perche' in questo cortile si radunavano i cacciatori che accompagnavano il re nelle battute di caccia.

Sul lato destro del Patio de la Monteria, si trova la Casa de Contratacion ('Casa del Commercio'), usata per gestire gli scambi commerciali con le Americhe. La Casa de Contratacion include anche il Cuarto de Almirante ('Appartamento dell'Ammiraglio') e la Sala de Audiencias ('Sala delle Udienze'), che nella parte posteriore e' stata trasformata in una cappella dove e' presente un affresco che raffigura la Virgen de los Mareantes ('Madonna dei Navigatori'), protrettrice dei naviganti che si imbarcavano verso il nuovo mondo.

Preseguendo sullo stesso lato del Patio de la Monteria si entra nel Palacio de Pedro I ('Palazzo di Pedro I'). Non sono salito ai piani superiori del palazzo, dove si trovano gli appartamenti reali, ma mi sono limitato ad ammirare il pian terreno. Il pian terreno era stato pensato in modo che attorno al Patio de las Doncellas ('Cortile delle Fanciulle') si sviluppavano le funzioni pubbliche del re, mentre il Patio des las Munecas ('Cortile delle Bambole') era dedicato alla vita privata.

La vista dei due cortili e le stanze ad essi attigue non possono lasciare indifferente il visitatore. Gli archi in gesso, le colonne e i capitelli, le ceramiche colorate. Tutti tratti di uno stile mudejar che si ripete in tutto il resto dei Reales Alcazares, che a me in particolare mi ha trasportato indietro di un anno, quando passeggiavo dentro le antiche corti di Marrakech.

Altro palazzo famoso dentro i Reales Alcazares e' il Palacio Gotico ('Palazzo Gotico'). Ho potuto ammirare al suo interno il Salon de los Tapices ('Salone dei Tappeti'), che e' una grande sala decorata con arazzi raffiguranti le conquiste spagnole in Africa.

Poi sono passato a visitare i giardini. Un miscuglio armonioso di colori e di profumi. Intervallati da fontane e giochi d'acqua, freschi e sobri. E ancora archi, viottoli e muretti in un perfetto stile mudejar che spicca con colori forti e geometrie bizzarre, ma lega paradossalmente il tutto in un quadro che rasserena e riempie chiunque vi si trovi dentro.

Il giardino che mi e' rimasto piu' impresso, oltre ai Jardines de Mercurio ('Giardini di Mercurio'), in cui domina una grande vasca, situata all'altezza del palazzo e quindi superiore rispetto al resto dei giardini, al centro del quale si trova la statua che rappresenta il dio Mercurio, e' il Jardin de la Danza ('Giardino della Danza') e, in particolare, il Bano de Dona Maria de Padilla ('Terme della Signora Maria di Padilla') che e' il giardino sotterraneo che Pedro I, detto el Cruel ('il Crudele'), fece costruire per la sua amante, Dona Maria di Padilla.

La storia narra che Pedro I uccise il marito di Dona Maria di Padilla, per averla. Lei, pur di non cedere, si verso dell'olio bollente in faccia e si sfiguro'. In seguito, divento' suora e ando' in convento. Dona Maria di Padilla e' considerata un simbolo di purezza nella cultura di Siviglia.

Sono quindi scadute le mie ore ancora a disposizione. Serenamente prendo l'autobus che mi porta in aeroporto, senza sapere a cosa fosse dovuta la mia inusuale serenita'. Era l'appagatezza del cuore sublimato dalle emozioni che Siviglia mi ha regalato.

Il Cammino di Santiago

sabato 16 gennaio 2010

Ho percorso parallelamente a Paulo Coelho, le sofferenze che lui ha patito lungo il pellegrinaggio intorno a cui si impernia questo libro. Non tanto per essermi calato nella parte del protagonista del romanzo, ma quanto per aver letto controvoglia pagine e pagine da cui non riuscivo ad estrapolare qualcosa che mi appagasse interiormente o che mi coinvolgesse emotivamente.

Tuttavia, ho continuato testardamente a leggerle perche' se dovevo dare un giudizio negativo, non mi avrebbe fatto sentire certo sereno l'averlo dato sulla base di una visione incompleta dell'opera che avrei giudicato.

Il Cammino di Santiago e' il primo romanzo di Paulo Coelho. Risale al 1987. Mentre l'edizione italiana risale al 1990. Il romanzo e' autobiografico. Parla di una tappa importante della sua vita. Ovvero del viaggio che nel 1986 lo vide percorrere il Cammino di Santiago.

Sono riuscito a comprendere quanto realmente importante sia stata questa esperienza per Coelho solo guardando l'intervista di Fabio Fazio durante una puntata della trasmissione Che tempo che fa.

Nell'intervista Coelho spiega come, essendo cresciuto in un collegio di Gesuiti, gli sia stato imposto di credere in Dio e come sia stato naturale, a seguito di questa imposizione, allontanarsi da questa credenza. La ricerca della propria spiritualita', innata in ognuno di noi, lo ha spinto a girovagare tra le piu' disparate religioni, avvicinandosi anche alla magia, prima di percorrere ll Cammino di Santiago e quindi ritrovare la convinzione che nel Cattolicesimo, con il suo male e il suo bene, si rispecchi la sua spiritualita'.

Nel romanzo, Coelho parla di un ordine che vive all'interno della Chiesa Cattolica che ha l'ambizione di comprendere il linguaggio simbolico del mondo. Si tratta dell'Ordine di RAM (Rigore Amore Misericordia, Regnum Agnus Mundi).

Il romanzo inizia con la cerimonia che lo avrebbe dovuto vedere incoronato Maestro dell'Ordine di RAM, con la conseguente consegna di una nuova Spada, in sostituzione della vecchia che lo aveva accompagnato nel superare tutte le prove che lo avevano portato fin li'.

La cerimonia si interrompe bruscamente quando Coelho tende le mani per ricevere la Spada dal Maestro. Il Maestro infatti gli fa capire che le prove che ha superato gli avrebbero dovuto insegnare che in quella cerimonia avrebbe dovuto rifiutare la Spada. In quanto, quel gesto indica che c'era ancora una certa propensione a distinguersi dalle persone comuni. Ovvero che nel suo cuore c'era ancora dell'impurita'.

Per conseguire la Spada allora a Coelho gli viene ordinato di riprendere il cammino della Tradizione, seguendo il Cammino di Santiago. Lungo quel cammino, tra le persone semplici e superando dei difficili ostacoli (che corrispondono con i peccati di avidita', superbia e fascinazione verso i prodigi di cui Coelho ha peccato durante la cerimonia), avrebbe dovuto trovare la Spada che lo aspettava in un punto preciso ad una certa data e ora, che intanto era stata consegnata alla moglie e che lui non avrebbe potuto toccare senza l'ordine del Maestro.

Le origini della cittadina Santiago de Compostela, capitale della comunita' autonoma spagnola della Galizia, sono da individuarsi ai tempi in cui l'apostolo Giacomo si spinse fino in quelle terre per predicare il Vangelo, e li' trovo' la morte. Fu sepolto in un campo dove una notte un pastore vide una stella brillare. A quel campo fu dato il nome di Compostela ('Campo della stella') e li' sorse nel tempo la cittadina di Santiago de Compostela (San Giacomo di Campostella).

Il Cammino di Santiago consiste di varie rotte che partono da varie cittadine - anche fuori dal territorio spagnolo, e confluiscono a Puente la Reina. Da Puente la Reina il percorso prosegue per alcune centinaia di chilometri fino a raggiungere Santiago de Compostela.

Nel primo millennio del Cristianesimo, il Cammino di Santiago (noto ache come Via Lattea, visto che i pellegrini che lo intraprendevano si orientavano di notte seguendo le stelle della Via Lattea) rappresentava uno dei tre cammini (gli altri due sono quelli che portano alla tomba di San Pietro a Roma e al Santo Sepolcro a Gerusalemme) che si percorreva per accedere ad una serie di benedizioni e indulgenze.

Il cammino che il protagonista segue nel racconto parte dalla cittadina francese di Saint-Jean-Pied-de-Port. A Saint-Jean-Pied-de-Port Coelho trova Madame Debrill che lo mette in contatto con quella che sara' la sua guida spirituale, Petrus. Petrus accompagnera' Coelho lungo il percorso, ma puntualizzera' prima di congedarsi da lui, che non lo ha seguito per aiutarlo a trovare la Spada ma per dargli gli strumenti che gli serviranno per trovarla. Questi strumenti consistono in una serie di esercizi che vengono indicati come le Pratiche di RAM. Da quel punto, dopo avere superato sfide e prove (le lotte con il cane feroce, la risalita della cascata e l'alzata della croce di ferro), Coelho e' lasciato da solo in balia di se' stesso per completare la ricerca della sua Spada.

Coelho e' ancora convinto di dover trovare una spada come quella che gli doveva essere consegnata al momento della cerimonia che lo doveva incoronare Maestro dell'Ordine di RAM. Corrispondentemente, il suo smarrimento aumenta e il motivo principale e' che non concepisce la domanda sull'utilita' di tale spada. Più si avvicina la fine del percorso, piu' il protagonista si sente affranto. Assiste al Rituale della Tradizione, prova un senso di invidia per l'Australiano che riesce a conseguire la sua spada, ma ancora non percepisce perche' egli non riesce ad ottenere la sua di spada. Alla conclusione di questa cerimonia ai Templari di Ponferrada, Coelho si sente addirittura in colpa per aver deluso la sua guida spirituale, che era stata tanto paziente e disponibile a trasmettergli le Pratiche di RAM.

Allo sbando Coelho segue una ragazzina che lo porta a Villafranca di Bierzo, fino al Portale del Perdono. Tale portale e' un traguardo della stessa valenza del santuario di Santiago de Compostela per quei pellegrini che non hanno la forza di affrontare l'ultimo tratto del cammino e l'averlo attraversato, garantisce loro le stesse indulgenze dei pellegrini che arrivano alla fine del tragitto. Una volta attraversato il portale, Coelho offri' del denaro alla ragazzina per averlo accompagnato al Portale del Perdono, ma gli furono rifiutati.

Ripreso il cammino, Coelho incontra un uomo che gli propone di portarlo a visitare la chiesa di San Giuseppe Falegname. Ancora una volta, il protagonosta accetta, con la speranza fievole di trovare la Spada, quasi che oramai non sa piu' a cosa aggrapparsi, e giunge con lui sino alla chiesa. Ancora una volta offre del denaro come ricompensa, e ancora una volta i soldi vengono rifiutati. I gesti dell'uomo e della ragazza, sono gratuiti

Queste due situazioni portano Coelho a riflettere sul fatto che, ogni volta che il suo unico pensiero e' il ritrovamento della Spada, Petrus lo distoglieva mettendolo davanti a delle prove sempre piu' dure. Parallelamente, pensava all'uomo e alla ragazzina che invece servivano la loro cittadina - mostrandola con orgoglio ai pellegrini di passaggio, senza curarsi della ricompensa. Nei pensieri di Coelho, si andava delineando che la Spada poteva essere considerata alla stregua della sua ricompensa.

Ancora una notte e un dialogo con Astrain (il suo Messaggero) per far mettere a posto qualche tassello, e, finalmente, Coelho, lungo la risalita del Cebreiro, trova la chiave di questo viaggio. Il segreto della Spada era la motivazione che spingeva al suo ritrovamento. Cosi' come nella vita ogni conquista e' tale se si conosce la finalita' per cio' che si vuole conquistare.

In cima al monte, Coelho sublima la sua conquista fermandosi a pregare ai piedi del Crocifisso e poi seguendo una pecora che lo conduce in una cappella dove incontra il Maestro che gli consegna la Spada. Anche in questo contesto Coelho impregna la sua avventura di una sorta di misticismo. Come del resto avviene in tutto il racconto.

Il cammino di Coelho si riduce, quindi, a un culto continuo di virtu' umane che porta a scoprire l'essenza della vita dell'uomo, e che rappresenta una giustificazione del risultato raggiunto. E cio' rende oltremodo pesante la lettura del racconto specie nella parte centrale. Un'altra buona dose di pesantezza e' inoltre data da un eccessivo richiamo agli esoterismi dell'Ordine di RAM.

Questi aspetti hanno diminuito la fluidita' della mia lettura, visto che avevo immaginato al romanzo come a una cronaca di un viaggio, contornato da preziosismi sui temi di vita che solo Coelho sa dare. Una sorta di delusione quindi e' affiorata man mano che leggevo il libro, non trovando tra le pagine nulla che era degno di essere sottolineato. Ma oltre a questi aspetti, Coelho e' riuscito a riaccendere il mio interesse, sfoggiando un finale avvincente e colmo di significati rendendo il mio giudizio su questo romanzo nel complesso positivo.

La strega di Portobello

mercoledì 27 febbraio 2008

Anche per questo libro di Paulo Coelho mi sono dilungato incredibilmente nel leggerlo. Ma anche questa volta non ho scusanti. E' solo il piacere di sapere che e' sempre la' sul comodino pronto per essere aperto e farmi provare quella sensazione particolare che solo Coelho sa' far provare. Viceversa, e' la paura di tornare a casa, entrare in camera da letto e non trovare sul comodino un libro di questo artista che, come nessun altro, sa' svegliare e deliziare il mio essere persona.

Fra le righe voglio precisare, che un altro libro di Coelho (ndr: 'Il cammino di Santiago') sta la', pronto ad ansimare a lungo prima che finisca tra le mie mani e sotto i miei occhi.

In questo libro, Coelho continua nel suo stile e si rinnova. E' importante, come sempre per lui, l'ambiente in cui tutto si svolge. Ma si tratta sempre di posti nuovi (Londra, Libano, Romania, Dubai e Saintes-Maries-de-la-Mer). O meglio, sono posti per cui riesce a raccontare qualche aspetto nuovo legato alle popolazioni, alle tradizioni, alla storia. Quasi una esortazione ad andare a toccarli con mano e provare le stesse emozioni.

Un'altra novita' che mi ha affascinato in questo romanzo e' la struttura (e l'abilita' di Coelho a dargliela) che e' atipica. Si tratta verosimilmente di un reportage sulla vita della protagonista - la strega di Portobello - raccontato da persone che, piu' o meno - le sono state vicine. Tante interviste che, messe insieme, danno vita a documento particolarmente lineare che descrive la vita di questa donna. Tuttavia, non viene tolto al lettore il sacrosanto diritto di emozionarsi attaverso sempre nuovi intrighi e misteri che una piacevole lettura deve offrire.

NB: Chi non e' interessato all'intrigo e alla suspense, puo' continuare a leggere.

Il redattore di questo documento non e' altri che il poliziotto di Scotland Yard a cui spesso fa' riferimento la protagonista - Sherine Khalil, Athena, strega di Portobello, quando qualcuno le chiede sulla sua vita privata. In realta', Athena vive per forza di cose questo rapporto atipico con questo poliziotto (un rapporto che e' marginale in tutto il racconto, ma che aggiunge solo intrigo ad esso) in modo distaccato, al fine di perseguire il suo intento ovvero, diffondere amore senza per giunta creare un mito.

Quest'ultimo aspetto la porta, insieme al poliziotto, a studiare il modo per uscire dalla figura carismatica che era riuscita a costruire. Magari questo puo' essere visto anche come il suo scopo di vivere una vita piu' normale dopo che la sua 'missione' era compiuta.

Difatti, tutto ha origine da un precoce matrimonio - con Lukas, e da un altrettanto precoce divorzio, dopo la nascita del figlio - Viorel. Viorel e' un nome romeno. Come romene sono le origini di Athena. Athena fu adottata da una coppia di facoltosi Libanesi, presso un orfanotrofio della Transilvania in Romania. Con lo scoppio della guerra in Libano, tutta la famiglia si trasferi' a Londra.

Il periodo dopo il divorzio viene descritto in tutte le difficolta' che una giovane donna sola con un figlio da crescere, si trova ad affrontare. Da li', la vita di Athena e' un continuo crescendo. Anche se non c'e' particolare enfasi verso i meriti della protagonista, ho avuto l'impressione che lo scrittore voglia attribuire il ritrovemento della giusta via ad Athena e alla capacita' di ascoltare il proprio cuore (esortazione ricorrente nelle opere di Coelho).

Piu' che mai, in questo momento Athena avrebbe avuto bisogno dell'aiuto del tanto adorato Santissimo. Ma la Chiesa - strumento con cui Athena suoleva rivolgersi abitualmente a Dio - con i suoi dogmi, si interpone sbattendole le porte in faccia.

Athena accetta questo rifiuto e va a vivere in appartamento, sola con il piccolo Viorel.

Il proprietario di questo appartamento e' Pavel Podbielski. Grazie a Pavel, Athena conosce la Ricerca del Vertice, la danza di gruppo che Pavel dirige, finalizzata a non perdere di vista il 'Vertice', ovvero quel punto del cuore di ognuno di noi che emana luce, fin tanto che si e' disposti ad accettarlo e riconoscerlo.

Lo scopo della danza e' raggiungere l''estasi', ovvero uscire fuori di se' stessi. Cosi' facendo la mattina, Athena riusciva a passare il resto della giornata concentrata su tutto cio' che si verificava intorno a lei.

Attraverso questa danza, Athena riusci' a migliorare i rapporti con i propri colleghi e cambiare il clima lavorativo in tutta l'agenzia di banca dove lavorava. Un cambiamento che porto' ad un incremento di produttivita' che risuono' fino ai vertici direttivi della banca e causo' la promozione di Athena: il trasferimento a Dubai, dove la banca aveva aperto da poco una filiale importante.

A Dubai, Athena viene a conoscenza di un beduino, un certo Nabil Alaihi. Da questi, Athena apprende l'arte della calligrafia. Nabil dice che "...la mano di chi traccia il segno riflette l'anima di chi scrive...", ma io su questo avrei molto da recriminare (ndr: ho una calligrafia che fa schifo!). Per cui, sono proteso ad interpretare questa parte del romanzo, come la descrizione della formazione del carattere di Athena. Athena scopre che il carattere si forma attraverso l'esercizio continuo del proprio corpo (le abitudini), a partire dai piccoli gesti - come puo' essere la scrittura. Non solo, le abitudini non possono prescindere dalla passione che ci si mette nella ripetizione dei normali gesti quotidiani, affiche' l'individuo raggiunga la piena maturazione.

La maturita' e' anche avere chiari i propri obiettivi (e risconoscere i propri limiti come prerequisito per raggiungerli). Questo e' molto ben illlustrato da Coelho con la metafora degli spazi bianchi. Athena attraverso la pazienza e l'esercizio, riesce a dominare le parole, ma rimane il vuoto quando la penna si alza dal foglio, prima di scrivere la parola successiva. Il perseguimento dell'arte della calligrafia, permette ad Athena anche di capire che uno degli spazi bianchi sono le sue origini. Da qui nasce la consapevolezza della necessita' di andare alla ricerca della madre naturale.

Ho trovato molto profonda ed emozionante la descrizione della confessione di Athena ai genitori adottivi di voler conoscere la propria madre naturale. E ancor di piu' l'accettazione da parte dei genitori adottivi.

Athena cosi' parte per la Romania del primo 'dopo-Ceausescu'. A Bucarest, Athena conosce, in due incontri separati, Edda (una Scozzese che si reca in Romania per celebrare il funerale del suo 'maestro', che si scoprira' poi essere il 'Protettore' della madre naturale di Athena. Edda sara' la 'maestra' di Athena) ed Heron (un giornalista che si innamorera' di lei, e che avra' un ruolo fondamentale nel raggiungimento degli scopi di Athena).

Verra' accompagnata a Sibiu dal Rom Baro (Capo dei Rom) Vosho. Dal Rom Baro, Athena riesce a farsi raccontare diversi fatti relativi al popolo dei Rom (altri particolari molto interessanti sui Rom sono descritti dallo storico Antoine Locandour). In particolare, in questa parte del romanzo, Coelho riesce a dare una connotazione particolarmente affascinante ai Rom, nonostante oggigiorno vige nella nostra societa' una chiara avversione verso questo popolo.

A Sibiu, Athena incontra la madre naturale Liliana. Il romanzo conosce in queste pagine, la parte piu' umana. Liliana racconta che ebbe Athena da uno straniero (gaje). E che fu presto disillusa dell'illusione di ogni donna, di vivere accanto al proprio principe azzurro, perche' da subito lo 'straniero' non si dimostro' in grado di sostenere la crescita della figlia. Il Rom baro fece in modo che Liliana non fosse scacciata dalla tribu' ma, la bambina dovette essere comunque portata in un orfanotrofio, dato l'impossibilita' di crescerla di Liliana.

Coelho racconta lucidamente la sofferenza di Liliana. E dipinge questa donna sottolineando soprattutto la convizione - che in essa soffoca la sofferenza, che la figlia tornera'. Come pure e descritta nitidamente la gioia composta della madre che ritrova la figlia (ma che non basta a sommergere i sensi colpa che affiorano inesorabili in essa, fin tanto che non potra' piu' fare a meno di confessarsi con Athena).

L'intensita' del breve incontro si arricchisce con i racconti di Liliana relativi alla sua adorazione di Santa Sara (protettrice dei Rom) e delle Sante Marie del Mare, e alla Grande Madre. La Madre e' - secondo la visione di Liliana - Dio, che non e' altro che la Natura. La Natura che le ha sussurrato le parole che le hanno ridato fiducia nei momenti piu' bui della sua vita.

Una tappa importante prima del rientro di Athena a Londra e' la festa che Liliana prepara alla figlia per il suo ritrovamento. Si tratta di una danza notturna intorno a un falo' nella foresta intorno a Sibiu. Durante questo rito Athena scorge la Grande Madre, il dio che a cui in realta' i Rom credono. E' questo il riempimento degli spazi bianchi per Athena o meglio la scoperta di come dominarli: il venire a conoscienza delle propria madre e trovare una connotazione piu' chiara nella societa', una maggiore chiarezza sul percorso da seguire nel prosieguo della sua vita.

In seguito, Athena incontra piu' volte Edda e comincia a fare da medium per la Grande Madre.

Il gruppo che partecipa alle sedute e' inizialmente costituito dagli allievi della scuola di teatro frequentata da Andrea - la compagna di Heron finche' non diverra' l'allieva di Athena. A seguito delle incarnazioni, il gruppo si infoltisce sempre piu', fino a quando la sua popolarita' non si diffonde in tutto il quartiere di Portobello.

La risonanza di questa 'setta' non puo' che causare lo sdegno della Chiesa. E' forse questa l'ultima nota che precede la 'scomparsa' di Athena. Una nota polemica, sicuramente, che evidenzia l'atteggiamento (non poco frequente) ipocrita della Chiesa, che non ho problemi ad esternare sebbene sono un cristiano praticante e stimo molte personalita' che rappresentano questa istituzione.

Search

Tag Cloud

Archive

recent Post

Link

Blogroll

Feed

All Post

ADS