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Mar adentro

giovedì 05 febbraio 2009

'Eutanasia': ho messo la testa sotto la sabbia come gli struzzi finora, e anche il collo. Oggi, pero', tirero' via almeno il collo da sottoterra. Perche' parlero' di questo quanto mai crudo e coraggioso film di Alejandro Amenábar che si incentra su un tema del tutto attuale: l''eutanasia'.

Ero arrivato sui titoli di chiusura di questo film a casa di un amico, che lo aveva appena guardato. E il volo sul mare azzurro e limpido, al punto da confondersi con il cielo, mi aveva particolarmente catturato. In quel momento, avevo deciso che avrei guardato quel film.

Sapevo che era un film triste, benche' quelle immagini mi avevano infuso un piacevole senso di serenita' e di evasione totale. Ma avevo gia' deciso. Oggi, che l'ho guardato, penso che sia ancora piu' triste di quello che potevo pensare. Non mi soffermero' a parlare della trama di questo film per darne dimostrazione. Anche perche' penso che quello che ha un vero senso nel film e' come pone davanti ad un problema etico-morale, e non lascia via di uscita fino alla fine del film e anche oltre.

Non potevo mai immaginare che quel mare vivido che esala profumi di liberta' che hanno dato la vita al protagonista, e' lo stesso che impassibilmente ha cagionato la fine del suo vivere ('Il mare mi ha dato la vita e il mare se l'e' ripresa').

Ramón Sampedro, tetraplegico spagnolo da quasi trent'anni, vuole morire. Il film e' tutto un susseguirsi di esposizioni che giustificano la sua scelta. Chiaramente, vengono presentate anche una serie di motivazioni antagoniste. A capo di questa mozione, ci sono la Chiesa e lo Stato, e anche singole persone. Ma ci sono anche persone che cambiano la loro posizione venendo a contatto con Ramón. Che cominciano ad apprendere l'importanza del rispetto per la volonta' di morire di Ramón.

Non si puo' restare indifferenti o continuare a promulgare ostinatamente frasi che inneggiano la lotta per vivere davanti ad affermazioni lucide di Ramón come 'Voglio morire, perche' per me in questo stato, la vita cosi' non e' vita.' oppure 'Pensa a questo: tu sei seduta la', no? A meno di due metri. Che cosa sono due metri? Un tragitto insignificante per qualsiasi essere umano, no? Pero' per me questi due metri che servono per poter arrivare a te, per poterti almeno toccare, sono un viaggio impossibile, una chimera, un sogno. Per questo voglio morire.'. Da queste frasi impari che talvolta hai quantomeno il dovere morale di rispettare la scelta di morire di un'altra persona.

Al centro di queste giustificazioni c'e', a mio parere, la voglia di riacquisire la dignita' della persona, che si sente meno propria quando si e' prigionieri di un handicap. Ho amici emofiliaci che rifiutano il trapianto di midollo e amici sordi che rifiutano l'impianto cocleare. Cosi' come Ramón rifiuta la sedia a rotelle ('Accettare la sedia a rotelle sarebbe come accettare le briciole di quella che era la mia liberta''). Sicuramente c'e' una riflessione profonda da parte di chi vive in prima persona queste menomazioni, e delle condizioni che fanno optare per un 'no' piuttosto che per un 'si''. E vanno rispettate.

Meno facile e' rispettare la decisione di cessare di vivere, e sicuramente non puo' essere valutata alla stregua delle scelte appena citate. Ma la lucidita' di affermazioni come 'Una vita che elimina la liberta' non e' vita' debbono far riflettere sul rispetto da attribuire al pensiero di chi soffre in modo irreversibile.

Il rispetto non va' contro l'idea che uno puo' avere sulla preziosita' della vita, e soprattutto viene meno quando un pensiero o una scelta e' giudicata o, ancora peggio, vengono sveltolati su tutti i mezzi di informazione per fare demagogia.

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